Credo molto nelle potenzialità dei social network e vi sto di fatto spendendo le mie migliori energie. Sono convinta che una scuola 2.0 debba affiancare a un solido studio dei contenuti una diffusione degli stessi in un formato appetibile e soprattutto vicino alle modalità di comunicazione degli studenti, che di certo al giorno d'oggi non scrivono soltanto con carta e penna, ma ricorrono spesso alla leggerezza dei bits. Qualcosa che del resto già Calvino aveva preconizzato nelle sue Lezioni Americane.

Confrontarsi con il pubblico della comunità social, ben più vasto del microcosmo classe (e potenzialmente infinito), proponendo il proprio lavoro, significa per gli studenti sviluppare ottime doti di sintesi nell'esposizione dei contenuti e mantenere buon controllo ortografico. Non solo, essi devono imparare a scrivere in modo accattivante e spigliato, così da ottenere l'attenzione dei lettori, nonché variare il registro stilistico a seconda delle diverse situazioni comunicative.

lunedì 30 settembre 2019

Giorno d'esame - di Henry Slesar


Questo racconto fa parte di una raccolta del famoso scrittore di gialli Henry Slesar e ispirò una serie televisiva famosissima negli anni Sessanta, intitolata Ai confini della realtà
La storia è ambientata in un futuro non definito, in cui i governi autoritari e repressivi avranno la meglio sui migliori individui.

I Jordan non parlarono mai dell’esame, o almeno non ne parlarono fino al giorno in cui Dickie compì dodici anni.            
Fu solo        quella mattina che la signora Jordan accennò per la prima volta all’esame in presenza del figlio, e il suo tono angustiato provocò una risposta secca del marito.
«Non ci pensare ora» disse bruscamente. «Se la caverà benissimo».

Stavano facendo colazione, e il ragazzo alzò la testa dal piatto, incuriosito. 
Era un ragazzetto dallo sguardo sveglio, con capelli ricci e modi vivaci. Non capì il motivo dell’improvvisa tensione che si era creata nella stanza, ma sapeva che era il giorno del suo compleanno e desiderava che tutto andasse bene. 

Da qualche parte nel piccolo appartamento erano nascosti dei pacchetti infiocchettati che aspettavano di essere aperti, e nella minuscola cucina retrattile qualcosa di molto appetitoso stava cuocendo nel forno automatico. 
Lui voleva che quel giorno fosse felice, e il velo umido che aveva appannato gli occhi di sua madre, l’espressione         torva  sul volto di suo padre, minacciavano ora di guastargli la festa.

«Quale esame?» chiese.
La madre guardò l’orologio sul tavolo, «È solo una specie di test d’intelligenza che il 
governo fa fare a tutti i bambini all’età di dodici anni. Tu dovrai sostenerlo la prossima settimana. Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»
«Vuoi dire un test come quelli di scuola?»
«Qualcosa del genere,» disse il padre alzandosi di scatto. «Vai a leggerti un giornalino, Dickie.»

Il ragazzo si alzò e si diresse svogliatamente verso l’angolo del soggiorno che era sempre stato il suo angolo, fin da piccolo. Sfogliò per qualche istante un giornalino a fumetti, ma le sue strisce a colori vivaci non sembrarono divertirlo. Andò alla finestra e restò a guardare malinconicamente il velo di vapore che appannava i vetri.

«Perché deve piovere proprio oggi?» si disse. «Perché non può piovere domani?»
II padre, ora sprofondato in poltrona con il giornale governativo tra le mani, spiegazzò rumorosamente i fogli, irritato.
«Perché piove, ecco perché. La pioggia fa crescere l’erba.»
«Perché, papà?»
«Perché sì, che domande, Dickie» corrugò la fronte. «Ma che cosa la rende verde, poi? L’erba, voglio dire.»
«Nessuno lo sa,» tagliò corto il padre, pentendosi immediatamente per la sua asprezza.

Poi, a poco a poco, quel giorno tornò il giorno del suo compleanno. 
La madre sorrideva con tenerezza quando entrò con i pacchetti gaiamente colorati, e persino il padre rimediò un sorriso e gli scompigliò i capelli. 
Dickie baciò la mamma e strinse gravemente la mano al padre. Venne servita la torta di compleanno, e la festa finì.

Un’ora dopo, seduto accanto alla finestra, guardava il sole che si faceva strada tra le nuvole.
«Papà,» chiese, «quant'è lontano il sole?»
«Diecimila chilometri,» rispose il padre.

Il lunedì seguente, seduto a tavola per la colazione, Dickie  vide  di nuovo gli occhi della madre farsi lucidi. Ma non collegò queste lacrime con l’esame finché il padre non tirò fuori bruscamente l’argomento.
«Be’, Dickie,»  annunciò  con  un’aria  più  scura  che  mai, «tu  hai un appuntamento per oggi.»
«Capisco, papà. Spero...»
«Non c’è niente da preoccuparsi, adesso. Migliaia di bambini fanno quel test ogni giorno. Il Governo vuole solo sapere quanto sei in gamba, Dickie. Si tratta solo di questo.»
«Ho preso sempre buoni voti a scuola,» disse il ragazzo, esitante.
«Questa volta è diverso. Si tratta di... di un test di tipo speciale. Ti danno quella roba da bere, e poi ti fanno entrare in una stanza dove c’è una specie di macchina...»
«Quale roba da bere?» chiese Dickie.
«Oh, niente. Sa di menta. È solo per essere certi che uno risponde sinceramente alle domande. Non che il Governo pensi che tu non diresti la verità, ma quella roba li rende proprio sicuri.»

La faccia di Dickie manifestava tutta la sua sorpresa, e un’ombra di paura. Guardò la madre, e lei si costrinse a un vago sorriso.
«Andrà tutto bene, vedrai,» disse al figlio.
«Certo che andrà tutto bene,» ribadì il padre. «Tu sei sempre stato un bravo bambino, Dickie, e te la caverai benissimo. 
Poi torneremo a casa e faremo una festa. D’accordo?»
«D’accordo,» disse Dickie.

Arrivarono al palazzo governativo dell’Istruzione Popolare quindici minuti prima dell’ora fissata. Traversarono un grande atrio a colonne, passarono sotto un’arcata, ed 
entrarono in  un  ascensore  che  li  portò all’ottavo piano.
Lì trovarono un usciere che chiese il nome di Dickie, e controllò accuratamente una lista prima di accompagnarli alla sala 804.

La sala era fredda e ufficiale come un tribunale, con lunghe panche affiancate a tavoli metallici. C’erano già numerosi padri e figli, e una donna, dalle labbra sottili e i capelli corti e neri, distribuiva dei moduli.

Il signor Jordan riempì il foglio e lo restituì all’impiegata. 
Poi disse a Dickie: «Non sarà una cosa lunga, vedrai.  Quando senti chiamare il tuo nome, devi solo entrare in quella porta là in fondo». 
E gli indicò la porta con la mano.
Un altoparlante crepitò e chiamò quindi il primo nome. Dickie vide un ragazzo, più o meno della sua età, lasciare con riluttanza la mano del padre e dirigersi lentamente verso la porta.
Alle undici e cinque chiamarono il nome Jordan.
«Buona fortuna, figliolo,» disse il padre senza guardarlo. «Quando il test sarà finito, mi telefoneranno e verrò a riprenderti.»

Dickie si avvicinò alla porta e girò la maniglia. La nuova stanza gli sembrò buia e a malapena riuscì a distinguere la sagoma del funzionario in tunica grigia che lo salutò.

«Siediti,» disse gentilmente l’uomo, indicandogli un alto sgabello davanti alla sua scrivania. «Ti chiami Richard Jordan?»
«Sì, signore.»



«Il tuo numero è 600115. Bevi questo, Richard.»

Prese un bicchiere di plastica già pronto sulla scrivania e lo porse al ragazzo. Il liquido che vi era contenuto aveva la consistenza del siero di latte, e sapeva molto vagamente della menta promessa. Dickie lo mandò giù d’un fiato.
Sedette in silenzio, sentendosi invadere da una strana sonnolenza, mentre l’uomo scriveva con aria molto indaffarata qualcosa su un foglio. 

Dopo qualche tempo guardò l’orologio, poi si alzò, chinandosi in avanti fino a trovarsi a pochi centimetri dalla faccia di Dickie. Sfilò dal taschino una sottile lampada a pila e proiettò uno stretto fascio di luce negli occhi del ragazzo.
«Bene» disse. «Vieni con me, Richard.»
Condusse Dickie all’altra estremità della stanza, dove una solitaria poltroncina di metallo era disposta di fronte a una macchina con molti quadranti. C’era anche un microfono, di cui il funzionario regolò l’altezza.
«Cerca ora di rilassarti, Richard. Ti saranno solo rivolte delle domande, e tu pensaci su bene prima di rispondere. Poi dì le tue risposte nel microfono. La macchina penserà al resto.»
«Sissignore.»
«Ti lascio solo ora. Quando vuoi cominciare, basta che tu dica pronto nel microfono.»
«Sissignore.»
L’uomo gli battè un colpetto sulla spalla, e se ne andò.

«Pronto,» disse Dickie.
Una fila di luci si accese sulla macchina, un meccanismo ronzò. Poi una voce disse:
«Completa questa sequenza: uno, quattro, sette, dieci...»
Il signore e la signora Jordan sedevano in soggiorno, senza dire una parola, senza nemmeno azzardarsi a pensare.

Erano quasi le quattro quando squillò il telefono.
La donna cercò di raggiungere per prima l’apparecchio, ma il marito fu più svelto.
«Il signor Jordan?»
Era una voce secca, dal tono sbrigativo, ufficiale.
«Sì, dite pure.»
«Qui è il Servizio Istruzione Popolare, Vostro figlio, Richard M. Jordan, ha completato l’esame governativo. Ci rincresce informarvi che il suo quoziente d’intelligenza è  risultato  di  13,8  punti  superiore al normale, per cui abbiamo dovuto procedere a norma dell’articolo 8 2, comma 5, del Decreto Legge 11-6-93.

La signora Jordan fece un urlo disperato, lacerante, perché le era bastato leggere l’espressione sulla faccia del marito.
«Potreste specificare per telefono» proseguì la voce impassibile «se desiderate che il corpo sia inumato a cura del Governo, o se preferite una sepoltura privata? Il costo di una sepoltura governativa è di dieci dollari.»

QUESTIONARIO DI COMPRENSIONE E ANALISI

1) Evidenzia nel brano: situazione iniziale, rottura dell'equilibrio, svolgimento e conclusione. 
Dividi il testo in macrosequenze e a ciascuna dai un titolo.

2) Per ciascuna di queste affermazioni, specifica se è vera o falsa:

a. Il racconto comincia la settimana prima del dodicesimo compleanno di Dickie. 

b. Il giorno del dodicesimo compleanno di Dickie, i suoi genitori sono preoccupati, perché sanno che il figlio dovrà sostenere un esame. 

c. I genitori rispondono senza esitazione e correttamente a tutte le domande di Dickie riguardo all’esame. 

d. I genitori sono certi del buon esito dell’esame, perché Dickie ha sempre ottimi risultati scolastici. 

e. Dickie viene accompagnato da entrambi i genitori alla scuola dove sosterrà l’esame. 

f. Dickie deve bere un liquido fatto dal siero del latte che lo tranquillizzerà. 

g. Il governo vuole essere certo che i ragazzi rispondano sinceramente alle domande. 

h. Vengono uccisi i ragazzi di dodici anni che hanno il quoziente intellettivo sopra la norma.

3) Tra la prima parte (ambientata in casa Jordan) e la seconda parte ( nel palazzo governativo) del racconto è presente una ellissi. Individua l'espressione che segnala il salto temporale.

4) Mentre la madre di Dickie mostra tenerezza e apprensione verso il figlio, il padre appare duro nei suoi confronti. Individua nel testo le espressioni impiegate per evidenziare questo atteggiamento e spiega quale stato d'animo nascondono.

5) Nel mondo del futuro immaginato da Slesar nessuno può avere un'intelligenza superiore al livello stabilito dal governo. Per quale ragione, secondo te?

6)  Scrivi per ognuna delle seguenti parole il loro sinonimo presente nel brano e stabilisci quale potrebbe essere un contrario.

a.   angosciato
b.   di scatto
c.   rovinargli
d.   corrugò
e.   allegramente
f.    titubante
g.   molti
h.   con sforzo, a stento

7)  Il sovraffollamento costituisce un problema sempre più grande, infatti dipendono dal numero di cittadini le questioni lavorative, abitative, sociali.... 
Per far fronte a questa situazione, nel racconto che avete appena letto, i governanti decidono di eliminare tutti i dodicenni che risultano troppo intelligenti. 
Discutete insieme per trovare una risposta alla seguente domanda: Perché l’intelligenza può essere pericolosa dal punto di vista dei governanti?



domenica 29 settembre 2019

La mia impronta ecologica

Dopo avere calcolato la tua impronta ecologica aiutandoti con la guida all'analisi riportata in questo sito, riporta il risultato nello schema qui sotto.

Imposta la lingua italiana se ti riesce difficile comprendere l'inglese, ma rifletti che forse dovresti dare maggiore importanza alle lingue in una società interculturale. 

Resterai sorpreso dal risultato, sicuramente maggiore di 1.75 (che sono i pianeti Terra necessari per sostentare il mondo). La maggior parte dei Paesi sviluppati, vittime dello sfruttamento predatorio di risorse e dei combustibili fossili, ha un’impronta ben più alta. L’Italia di circa 2.6 pianeti Terra, gli Stati Uniti di 5. Io stessa ho un’impronta di circa 2 pianeti Terra, sotto la media italiana ma sopra quella mondiale, in ogni caso maggiore di 1 pianeta Terra. 


sabato 21 settembre 2019

Le donne, i cavallier…: Ludovico Ariosto


Ariosto_bis
“All’inizio c’è solo una fanciulla che fugge per un bosco in sella al suo palafreno. Sapere chi sia importa sino a un certo punto: è la protagonista d’un poema rimasto incompiuto, che sta correndo per entrare in un poema appena incominciato…”
Per entrare in argomento CLICCA QUI

Italo Calvino legge il FuriosoCLICCA QUI

Stefano Accorsi e Marco Baliani mettono in scena l'Orlando furioso, tentando di far rivivere la situazione in cui tante volte dovette trovarsi Ariosto quando recitava davanti al pubblico estense e davanti alla sua protettrice, Isabella d'Este, che oggi chiameremmo la sua sponsor.  QUI un estratto dallo spettacolo in cui si sintetizza il canto primo.

Lettura delle ottave 1-9 del canto I effettuata da me.

TESTO: 
                                   1
     Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.

 2
     Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sí saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sará però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.

 3
     Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.




 4
     Voi sentirete fra i piú degni eroi,
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensier cedino un poco,
sí che tra lor miei versi abbiano loco.

 5
     Orlando, che gran tempo inamorato
fu de la bella Angelica, e per lei
in India, in Media, in Tartaria lasciato
avea infiniti et immortal trofei,
in Ponente con essa era tornato,
dove sotto i gran monti Pirenei
con la gente di Francia e de Lamagna
re Carlo era attendato alla campagna,

 6
     per far al re Marsilio e al re Agramante
battersi ancor del folle ardir la guancia,
d’aver condotto, l’un, d’Africa quante
genti erano atte a portar spada e lancia;
l’altro, d’aver spinta la Spagna inante
a destruzion del bel regno di Francia.
E cosí Orlando arrivò quivi a punto:
ma tosto si pentí d’esservi giunto;

 7
     che vi fu tolta la sua donna poi:
ecco il giudicio uman come spesso erra!
Quella che dagli esperii ai liti eoi
avea difesa con sí lunga guerra,
or tolta gli è fra tanti amici suoi,
senza spada adoprar, ne la sua terra.
Il savio imperator, ch’estinguer volse
un grave incendio, fu che gli la tolse.

 8
     Nata pochi dí inanzi era una gara
tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo,
che ambi avean per la bellezza rara
d’amoroso disio l’animo caldo.
Carlo, che non avea tal lite cara,
che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
questa donzella, che la causa n’era,
tolse, e diè in mano al duca di Bavera;

 9
     in premio promettendola a quel d’essi
ch’in quel conflitto, in quella gran giornata,
degli infideli piú copia uccidessi,
e di sua man prestassi opra piú grata.
Contrari ai voti poi furo i successi;
ch’in fuga andò la gente battezzata,
e con molti altri fu ’l duca prigione,
e restò abbandonato il padiglione.

La follia di Orlando: Canto 23, ottave 100-fine e canto 24, ottave 1-14

                                 100
     Lo strano corso che tenne il cavallo
del Saracin pel bosco senza via,
fece Ch’Orlando andò duo giorni in fallo,
né lo trovò, né potè averne spia.
Giunse ad un rivo che parea cristallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.

 101
     Il merigge facea grato l’orezzo
al duro armento et al pastore ignudo;
sí che né Orlando sentia alcun ribrezzo,
che la corazza avea, l’elmo e lo scudo.
Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;
e v’ebbe travaglioso albergo e crudo,
e piú che dir si possa empio soggiorno,
quell’infelice e sfortunato giorno.

 102
     Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi giá descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.

 103
     Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’ai suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.

                                104

     Poi dice: — Conosco io pur queste note:
di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette. —
Con tali opinïon dal ver remote
usando fraude a sé medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.

 105
     Ma sempre piú raccende e piú rinuova,
quanto spenger piú cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto piú batte l’ale e piú si prova
di disbrigar, piú vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.

 106
     Aveano in su l’entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al piú cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
piú che in altro dei luoghi circonstanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.

 107
     Il mesto conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
Medoro avea, che parean scritte allotta.
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenzia in versi avea ridotta.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso
et era ne la nostra tale il senso:


 108
     — Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commoditá che qui m’è data,
io povero Medor ricompensarvi
d’altro non posso, che d’ognior lodarvi:

 109
     e di pregare ogni signore amante,
e cavalieri e damigelle, e ognuna
persona, o paesana o viandante,
che qui sua volontá meni o Fortuna;
ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante
dica: benigno abbiate e sole e luna,
e de le ninfe il coro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia. —

 110
     Era scritto in arabico, che ’l conte
intendea cosí ben come latino:
fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò piú volte e danni et onte,
che si trovò tra il popul saracino:
ma non si vanti, se giá n’ebbe frutto;
ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.

 111
     Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto,
e sempre lo vedea piú chiaro e piano:
et ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.

 112
     Fu allora per uscir del sentimento,
sí tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né potè aver (che ’l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.

 113
     L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Cosí veggián restar l’acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.

 114
     Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun cosí infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d’insoportabil some
tanto di gelosia, che se ne péra:
et abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.

 115
     In cosí poca, in cosí debol speme
sveglia gli spirti e gli rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando giá il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
viene alla villa, e piglia alloggiamento.


                                116
     Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l’armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d’altra vivanda.

 117
     Quanto piú cerca ritrovar quiete,
tanto ritrova piú travaglio e pena;
che de l’odiato scritto ogni parete,
ogni uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena,
troppo chiara la cosa che di nebbia
cerca offuscar, perché men nuocer debbia.

 118
     Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che senza domandarne, è chi ne parla.
Il pastor che lo vede cosí oppresso
da sua tristizia, e che voria levarla,
l’istoria nota a sé, che dicea spesso
di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
gl’incominciò senza rispetto a dire:

 82
     come esso a prieghi d’Angelica bella
portato avea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente: e ch’ella
curò la piaga, e in pochi dí guarilla:
ma che nel cor d’una maggior di quella
lei ferí Amor; e di poca scintilla
l’accese tanto e sí cocente fuoco,
che n’ardea tutta, e non trovava loco:

 120
     e sanza aver rispetto ch’ella fusse
figlia del maggior re ch’abbia il Levante,
da troppo amor constretta si condusse
a farsi moglie d’un povero fante.
All’ultimo l’istoria si ridusse,
che ’l pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.

 121
     Questa conclusion fu la secure
che ’l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.

 122
     Poi ch’allargare il freno al dolor puote
(che resta solo e senza altrui rispetto),
giú dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di lá tutto cercando il letto;
e piú duro ch’un sasso, e piú pungente
che se fosse d’urtica, se lo sente.

 123
     In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto in che giaceva,
l’ingrata donna venutasi a porre
col suo drudo piú volte esser doveva.
Non altrimenti or quella piuma abborre,
né con minor prestezza se ne leva,
che de l’erba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.


 124
     Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albore
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, et esce fuore
per mezzo il bosco alla piú oscura frasca:
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi et urli apre le porte al duolo.

 125
     Di pianger mai, mai di gridar non resta:
né la notte né ’l di si dá mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si maraviglia ch’abbia in testa
una fontana d’acqua sí vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé cosí nel pianto:

 126
     — Queste non son piú lacrime, che fuore
stillo dagli occhi con sí larga vena.
Non suppliron le lacrime al dolore:
finir, ch’a mezzo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto ora il vitale umore
fugge per quella via ch’agli occhi mena:
et è quel che si versa, e trarrá insieme
e ’l dolore e la vita all’ore estreme.

 127
     Questi ch’indizio fan del mio tormento,
sospir non sono, né i sospir son tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
che ’l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?


 128
     Non son, non sono io quel che paio in viso:
quel ch’era Orlando è morto et è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sí, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch’in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra si, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza. —

 129
     Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar della diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro insculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sí, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né piú indugiò, che trasse il brando fuore.

 130
     Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge,
infelice quell’antro, et ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
CosÌ restar quel dÌ, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran piú, né a gregge:
e quella fonte, giá si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;

 131
     che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sÌ turbolle,
che non furo mai piú chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.





 132
     Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir cosí si serba,
che ’l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dí, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.

 133
     Qui riman l’elmo, e lá riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e piú lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ’l petto e ’l tergo;
e cominciò la gran follia, sí orrenda,
che de la piú non sará mai ch’intenda.

 134
     In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:

 135
     e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.


 136
     I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di lá, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
et io la vo’ piú tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.

............

1
     Chi mette il piè su l’amorosa pania,
cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale;
che non è in somma amor, se non insania,
a giudizio de’ savi universale:
e se ben come Orlando ognun non smania,
suo furor mostra a qualch’altro segnale.
E quale è di pazzia segno piú espresso
che, per altri voler, perder se stesso?

 2
     Varii gli effetti son, ma la pazzia
è tutt’una però, che li fa uscire.
Gli è come una gran selva, ove la via
conviene a forza, a chi vi va, fallire:
chi su, chi giú, chi qua, chi lá travia.
Per concludere in somma, io vi vo’ dire:
a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena,
si convengono i ceppi e la catena.

 3
     Ben mi si potria dir: — Frate, tu vai
l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. —
Io vi rispondo che comprendo assai,
or che di mente ho lucido intervallo;
et ho gran cura (e spero farlo ormai)
di riposarmi e d’uscir fuor di ballo:
ma tosto far, come vorrei, nol posso;
che ’l male è penetrato infin all’osso.


 4
     Signor, ne l’altro canto io vi dicea
che ’l forsennato e furïoso Orlando
trattesi l’arme e sparse al campo avea,
squarciati i panni, via gittato il brando,
svelte le piante, e risonar facea
i cavi sassi e l’alte selve; quando
alcun’pastori al suon trasse in quel lato
lor stella, o qualche lor grave peccato.

 5
     Viste del pazzo l’incredibil prove
poi piú d’appresso e la possanza estrema,
si voltan per fuggir, ma non sanno ove,
sí come avviene in subitana tema.
Il pazzo dietro lor ratto si muove:
uno ne piglia, e del capo lo scema
con la facilitá che torria alcuno
da l’arbor pome, o vago fior dal pruno.

 6
     Per una gamba il grave tronco prese,
e quello usò per mazza adosso al resto:
in terra un paio addormentato stese,
ch’al novissimo dí forse fia desto.
Gli altri sgombraro subito il paese,
ch’ebbono il piede e il buono aviso presto.
Non saria stato il pazzo al seguir lento,
se non ch’era giá volto al loro armento.

 7
     Gli agricultori, accorti agli altru’esempli,
lascian nei campi aratri e marre e falci:
chi monta su le case e chi sui templi
(poi che non son sicuri olmi né salci),
onde l’orrenda furia si contempli,
ch’a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci,
cavalli e buoi rompe, fraccassa e strugge;
e ben è corridor chi da lui fugge.


 8
     Giá potreste sentir come ribombe
l’alto rumor ne le propinque ville
d’urli e di corni, rusticane trombe,
e piú spesso che d’altro, il suon di squille;
e con spuntoni et archi e spiedi e frombe
veder dai monti sdrucciolarne mille,
et altritanti andar da basso ad alto,
per fare al pazzo un villanesco assalto.

 9
     Qual venir suol nel salso lito l’onda
mossa da l’austro ch’a principio scherza,
che maggior de la prima è la seconda,
e con piú forza poi segue la terza;
et ogni volta piú l’umore abonda,
e ne l’arena piú stende la sferza:
tal contra Orlando l’empia turba cresce,
che giú da balze scende e di valli esce.

 10
     Fece morir diece persone e diece,
che senza ordine alcun gli andaro in mano:
e questo chiaro esperimento fece,
ch’era assai piú sicur starne lontano.
Trar sangue da quel corpo a nessun lece,
che lo fere e percuote il ferro invano.
Al conte il re del ciel tal grazia diede,
per porlo a guardia di sua santa fede.

 11
     Era a periglio di morire Orlando,
se fosse di morir stato capace.
Potea imparar ch’era a gittare il brando,
e poi voler senz’arme essere audace.
La turba giá s’andava ritirando,
vedendo ogni suo colpo uscir fallace.
Orlando, poi che piú nessun l’attende,
verso un borgo di case il camin prende.


 12
     Dentro non vi trovò piccol né grande,
che ’l borgo ognun per tema avea lasciato.
V’erano in copia povere vivande,
convenienti a un pastorale stato.
Senza il pane discerner da le giande,
dal digiuno e da l’impeto cacciato,
le mani e il dente lasciò andar di botto
in quel che trovò prima, o crudo o cotto.

 13
     E quindi errando per tutto il paese,
dava la caccia e agli uomini e alle fere;
e scorrendo pei boschi, talor prese
i capri isnelli e le damme leggiere.
Spesso con orsi e con cingiai contese,
e con man nude li pose a giacere:
e di lor carne con tutta la spoglia
piú volte il ventre empí con fiera voglia.

 14
     Di qua, di lá, di su, di giú discorre
per tutta Francia; e un giorno a un ponte arriva,
sotto cui largo e pieno d’acqua corre
un fiume d’alta e di scoscesa riva.
Edificato accanto avea una torre
che d’ogn’intorno c di lontan scopriva.
Quel che fe’ quivi, avete altrove a udire;
che di Zerbin mi convien prima dire.
Per sintetizzare: dall’epica classica al romanzo cavalleresco. PREZI di Carlo Mariani.
“Le trame principali [del Furioso], ricordiamo, sono due: la prima racconta come Orlando divenne, da innamorato sfortunato d’Angelica, matto furioso, e come le armate cristiane, per l’assenza del loro campione, rischiarono di perdere la Francia, e come la ragione smarrita dal folle fu ritrovata da Astolfo sulla Luna e ricacciata in corpo al legittimo proprietario permettendogli di riprendere il suo posto nei ranghi.  Parallela a questa si snoda la seconda trama, quella dei predestinati ma sempre procrastinati amori di Ruggiero, campione del campo saraceno, e della guerriera cristiana Bradamante, e di tutti gli ostacoli che si frappongono al loro destino nuziale, finché il guerriero non riesce a cambiare di campo, a ricevere il battesimo e a impalmare la robusta innamorata. La trama Ruggiero-Bradamante non è meno importante di quella Orlando-Angelica, perché da quella coppia Ariosto (come già Boiardo) vuol far discendere la genealogia degli Estensi, cioè non solo giustificare il poema agli occhi dei suoi committenti, ma soprattutto legare il tempo mitico della cavalleria con le vicende contemporanee, col presente di Ferrara e d’Italia. Le due trame principali e le loro numerose ramificazioni procedono dunque intrecciate, ma s’annodano alla loro volta intorno al tronco più propriamente epico del poema, cioè gli sviluppi della guerra tra l’imperatore Carlo Magno e il re d’Africa Agramante. Questa epopea si concentra soprattutto in un blocco di canti che trattano l’assedio di Parigi da parte dei Mori, la controffensiva cristiana, le discordie in campo d’Agramante. L’assedio di Parigi è un po’ come il centro di gravità del poema, così come la città di Parigi si presenta come suo ombelico geografico”.
I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» (1974), in ID., Perché leggere i classici, Milano 1991
Il vero “tema” del Furioso è la conoscenza. Tutti, qui, dall’inizio alla fine, inseguono qualcosa o qualcuno, e ne sono inseguiti, perché non lo godono, non lo vedono, non lo sanno, e invece vogliono saperlo, vederlo, goderlo.
C. BOLOGNA, in Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, Vol. II, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi,Torino 1993




Lottare per i propri sogni

Alessandro d'Avenia, autore del brano che stai per leggere, è nato a Palermo nel 1977, figlio di un padre dentista e di una madre appassionata di lettere classiche. Anche lui si è laureato in lettere classiche e adesso insegna in un liceo di Milano.

Papà non è tornato per cena. Quando è rientrato era così tardi che non ho avuto il coraggio di chiedergli nulla. Non era il momento opportuno. Mi avrebbe fulminato e non potevo bruciarmi la mia unica possibilità. Io sono ancora sveglio perché sto cercando di scrivere il compito per il Sognatore. Non mi è mai fregato niente dei compiti difficili. Quando non mi riescono vado a dormire tranquillo e li copio il giorno successivo. Non so perché in questo caso c'è in gioco qualcosa di più, che mi spinge ad accettare la sfida. Come se, gettando la spugna, tradissi il Sognatore o me stesso. 



Sono davanti allo schermo del computer. Scrivo le domande del titolo: "Perché Roma, Alessandria e Bisanzio sono state bruciate dai loro conquistatori? Cosa animava barbari, arabi, turchi? Cosa li rendeva simili pur essendo così diversi?". Bianco. Non mi viene niente. Bianco come questo maledetto schermo. Bianco come il sangue di Beatrice. Chiamo Silvia. Non risponde. Silvia lascia sempre il cellulare acceso perché vuole che io possa chiamarla in qualsiasi momento se ho bisogno di aiuto. Silvia è il mio angelo custode. L'unica differenza è che lei la notte dorme, e a volte non sente il cellulare vibrare, come adesso. Devo risolvere da solo. 
È tardi. Fuori c'è il nero della notte e la mia mente è bianca. Cerco di trasformarmi in uno di quei saccheggiatori e mi chiedo cosa voglio ottenere dando fuoco ai libri che contengono. Mi aggiro per le strade polverose di Roma, di Alessandria e di Bisanzio, che poi ho scoperto essere diventata Costantinopoli e poi Istanbul, e in mezzo agli strepiti e alle urla della gente do fuoco a migliaia di libri. Mi sbarazzo di tutti quei sogni di carta e li trasformo in cenere. Li trasformo in fumo bianco. 
Ecco la risposta. Incenerire i sogni. Bruciare i sogni è il segreto per abbattere definitivamente i propri nemici, perché non trovino più la forza di rialzarsi e ricominciare. Non sognino le cose belle delle loro città, delle vite altrui, non sognino i racconti di altri, così pieni di libertà e di amore. Non sognino più nulla. Se non permetti alle persone di sognare, le rendi schiave. E io, saccheggiatore di città, adesso ho bisogno solo di schiavi, per regnare tranquillo e indisturbato. E così, non rimanga parola su parola. Ma solo bianca cenere dei sogni antichi. Questa è la distruzione più crudele: rubare i sogni alla gente. Lager pieni di uomini bruciati con i loro sogni. Nazisti ladri di sogni. Quando non hai sogni li rubi agli altri, perché non li abbiano neanche loro. L'invidia ti brucia il cuore e quel fuoco divora tutto... Quando finisco di scrivere fuori è buio come prima, e dal nero della notte io ho rubato i segni che adesso riempiono lo schermo bianco. Ho scoperto qualcosa: studiando, scrivendo. È la prima volta, ma non prenderò l'abitudine... E naturalmente l'inchiostro nero della stampante è finito, non mi resta che stamparla a colori. Rosso. 



Il Sognatore gira per i banchi a controllare l'esito della ricerca. Tutti sembrano averla svolta. A turno, chi vuole è chiamato a leggerla ad alta voce. Sembra di immergersi nella polvere e nel fuoco di secoli fa, eppure siamo in classe. Tutti hanno scritto qualcosa di cui sono orgogliosi, almeno quelli che hanno il coraggio di leggere. Io naturalmente non sono tra loro, leggere ad alta voce è come cantare. Suona la campanella. Ci affrettiamo a consegnare i nostri compiti, ma il Sognatore non li vuole. Incredibile! Preferisce che conserviamo la risposta che abbiamo trovato. E la custodiamo per noi stessi. 
Il Sognatore è proprio un pazzo. Ti dà i compiti e poi non ti mette il voto. Che razza di professore è uno che non ti mette il voto? Certo però che è riuscito a far svolgere a tutti la ricerca. Anche a me, nel cuore nero della notte. Allora forse non è necessario il voto per costringerti a studiare. Il Sognatore rimane seduto benché la classe si stia svuotando. Sorride e gli brillano gli occhi. Ha fiducia in noi. Ci crede capaci di fare cose belle. Forse non è del tutto un fallito. 
Non lascerò che i saccheggiatori brucino i miei sogni e li riducano in cenere. Non lo permetterò a nessuno. Rischio di non rialzarmi più. Invece Beatrice ha bisogno di me e non di un cumulo lagnante di macerie. Non voglio dimenticarmi quello che ho scoperto. Non voglio perché è troppo importante, ma ho la memoria scadente. Devo scrivere tutto, altrimenti dimentico. Forse l'unico modo di salvarmi dalla mia memoria è diventare scrittore. Ne voglio parlare con Silvia, è l'unica che non mi prenderebbe in giro. Come se avesse ascoltato i miei pensieri si avvicina, mi si stringe al braccio e appoggia la testa sulla mia spalla. 
«Cosa volevi ieri? Ho visto la chiamata solo stamattina.» 
«Volevo una mano per la ricerca.» 
Silvia solleva la testa e mi fissa con un'espressione triste:
«E certo. Cos'altro?» 
Si stacca e si allontana. 
La fisso andar via con la sensazione di non aver capito, come quando papà mi dice qualcosa e ne intende un'altra. A proposito, devo parlare con papà prima che me ne dimentichi...  

Alessandro d'Avenia, da Bianca come il latte, rossa come il sangue, 2010

Il romanzo racconta in prima persona la storia di Leonardo (meglio conosciuto come Leo), ragazzo di 16 anni innamorato di Beatrice, una ragazza dai lunghi capelli rossi. Leo descrive la scuola come una perdita di tempo, ma grazie ad essa ha conosciuto Silvia, la sua fedelissima migliore amica segretamente innamorata di lui. Oltre a lei giocano un ruolo importante nella sua vita Niko, il suo migliore amico, con cui gioca nella squadra di calcio della scuola, i "Pirati", Gandalf, il professore di religione, i suoi genitori, ed il "Sognatore", un giovane supplente di storia e filosofia con cui Leo ha inizialmente un rapporto controverso. Leo all'inizio lo considera uno "sfigato", ma l'insegnante riuscirà col passare del tempo a coinvolgerlo nelle sue lezioni e a fargli capire l'importanza dei sogni. Nella prima parte della storia si nota il lato più scherzoso e spensierato del ragazzo, il quale però, dopo aver scoperto che Beatrice è malata di leucemia, vivrà una trasformazione radicale. Infatti Leo prima si reca insieme al padre all'ospedale per donare il sangue a Beatrice, poi le scrive una lettera in cui le confessa i suoi sentimenti, ma a causa di un incidente in motorino non riuscirà a consegnargliela. Dopo le vacanze invernali Leo riuscirà finalmente a conoscere Beatrice, recandosi a casa sua insieme a Silvia una mattina dopo aver marinato la scuola. Il ragazzo riuscirà a confessare alla ragazza i sentimenti che prova per lei, ma Beatrice gli dirà che è tutto vano, in quanto lei sta per morire. Leo continuerà comunque a frequentare Beatrice, che gli farà capire che la sua anima gemella in realtà è Silvia. Il giovane è quindi pronto a dichiararsi all'amica sulla "loro" panchina al parco, ma il tutto si concluderà con la loro separazione. Infatti Silvia, gelosa di Leo, tempo prima aveva dato di proposito all'amico il numero sbagliato di Beatrice, affinché lui non riuscisse a conquistarla.
Verso la fine della scuola muore Beatrice nonostante tutte le cure che aveva fatto. Dopo le vacanze estive però Leo, leggendo una lettera di Silvia, capirà i sentimenti dell'amica e va fuori da casa sua per cantarle una serenata.
Dal libro è stato tratto un film Bianca come il latte, rossa come il sangue, uscito nelle sale nel  2013.
(da Wikipedia)

Esercizi di comprensione e analisi

1) Qual è il primo insegnamento che Leo ricava dalla ricerca svolta? Indica le conclusioni a cui giunge.
2) Cosa pensa di fare Leo per non dimenticare quello che ha imparato?
3) Silvia mostra una certa delusione quando viene contattata da Leo. Sapresti spiegare perché?
4) Hai notato come è frequente il riferimento ai colori? Quali sono i colori significativi per Leo? Che cosa rappresentano?
5) Riconosci i luoghi in cui si svolge la vicenda.
6) Secondo te, perché Leo pensa che il suo professore sia un "Sognatore"?
7) Credi che il professore sia riuscito ad ottenere da Leo i risultati che sperava? Come ci è riuscito?
8) Nella frase Volevo una mano per la ricerca, di registro basso, sostituisci la parola mano con un'altra parola in modo da passare a un registro intermedio.
9) Gettare la spugna
    Bruciarsi una possibilità
Spiega che vogliono dire queste due espressioni colloquiali ricorrendo a un registro intermedio.
10) In mezzo agli strepitii e alle urla della gente: cerca tre sinonimi per la parola strepitii
11) Mi sbarazzo di tutti quei sogni di carta e li trasformo in cenere. E' una frase semplice o un periodo? Distingui  i nomi concreti e i nomi astratti.
12) Cerca due sinonimi e due contrari della parola Sognatore.
13) «Leo, amare è un verbo, non un sostantivo. Non è una cosa stabilita una volta per tutte, ma si evolve, cresce, sale, scende, si inabissa, come i fiumi nascosti nel cuore della terra, che però non interrompono mai la loro corsa verso il mare. A volte lasciano la terra secca, ma sotto, nelle cavità oscure, scorrono, poi a volte risalgono e sgorgano, fecondando tutto.» 
Viene il giorno che ti guardi allo specchio e sei diverso da come ti aspettavi. Sì, perché lo specchio è la forma più crudele di verità. Non appari come sei veramente. Vorresti che la tua immagine corrispondesse a chi sei dentro e gli altri, vedendoti, potessero riconoscere subito se sei uno sincero, generoso, simpatico... invece ci vogliono sempre le parole o i fatti. E necessario dimostrare chi sei. Sarebbe bello doversi limitare a mostrarlo. Sarebbe tutto più semplice. 
Commenta a tua scelta uno dei due passaggi tratti dal libro di Alessandro d'Avenia.
14) Ti capita di studiare per il puro piacere di imparare cose nuove e senza la preoccupazione del voto? Pensaci, poi in classe ne discuteremo insieme ai compagni e alle compagne.