Credo molto nelle potenzialità dei social network e vi sto di fatto spendendo le mie migliori energie. Sono convinta che una scuola 2.0 debba affiancare a un solido studio dei contenuti una diffusione degli stessi in un formato appetibile e soprattutto vicino alle modalità di comunicazione degli studenti, che di certo al giorno d'oggi non scrivono soltanto con carta e penna, ma ricorrono spesso alla leggerezza dei bits. Qualcosa che del resto già Calvino aveva preconizzato nelle sue Lezioni Americane.

Confrontarsi con il pubblico della comunità social, ben più vasto del microcosmo classe (e potenzialmente infinito), proponendo il proprio lavoro, significa per gli studenti sviluppare ottime doti di sintesi nell'esposizione dei contenuti e mantenere buon controllo ortografico. Non solo, essi devono imparare a scrivere in modo accattivante e spigliato, così da ottenere l'attenzione dei lettori, nonché variare il registro stilistico a seconda delle diverse situazioni comunicative.

giovedì 22 marzo 2018

IL FUTURISMO


Movimento letterario, artistico e politico, fondato nel 1909 da F.T. Marinetti. Il futurismo, attraverso tutta una serie di ‘manifesti’ e di clamorose polemiche, propugnò un’arte e un costume che avrebbero dovuto fare tabula rasa del passato e di ogni forma espressiva tradizionale, ispirandosi al dinamismo della vita moderna, della civiltà meccanica, e proiettandosi verso il futuro fornendo il modello a tutte le successive avanguardie.
Il primo dei ‘manifesti’ di Marinetti (pubblicato nella Gazzetta dell’Emilia di Bologna il 5 febbraio 1909 e in francese nel Figaro del 20 febbraio 1909), che contiene già tutte le linee essenziali del movimento, culmina in queste asserzioni: 
«Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa ... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia ... Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro ... Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore ...»

Il futurismo, ricollegandosi all’irrazionalismo filosofico e spingendo alle estreme conseguenze la confusione tra arte e vita delle poetiche di fine Ottocento, si fece promotore di un atteggiamento vitalistico e attivistico che avrebbe dovuto investire e modificare radicalmente ogni dominio artistico e culturale e la stessa politica.
In campo letterario, eliminata ogni consequenzialità logica e psicologica, sostituita alla mediatezza della costruzione sintattica l’immediatezza delirante dell’onomatopea, il futurismo promosse le ‘parole in libertà’ (il paroliberismo), in cui un esasperato associazionismo analogistico si tradusse nell’iconismo della poesia visiva (‘auto-illustrazione’) e nella rivoluzione tipografica, ma contagiò anche lo stile espressivo dei ‘manifesti’, che restano il risultato più notevole del movimento, e non rimase senza conseguenze neppure sull’oratoria politica del tempo. 
Corrado Govoni, Il palombaro, esempio di poesia visiva.

Sorto in reazione, oltre che alla letteratura borghese dell’Ottocento, alla magniloquenza e all’estetismo dannunziani, il futurismo fu per molti aspetti la metodica radicalizzazione del dannunzianesimo, e la sua involontaria parodia. Il futurismo sfocerà in una problematica d’ordine politico, nelle manifestazioni interventiste al tempo della Prima guerra mondiale, fasciste e imperialiste più tardi. D’altra parte l’importanza storica del f. va cercata proprio in questo suo attivismo o dinamismo pratico, in questa sua funzione disgregatrice e dissolutrice, che, fra tanti equivoci e confusioni, ebbe pur il merito di far giustizia di una letteratura e di un’arte ridotta a convenzione e accademia; non già nell’ambito creativo, dove rimase, almeno per quanto riguarda la letteratura, scarso di risultati. Le vantate ‘sintesi’ e ‘simultaneità’ liriche futuriste spesso non sono che esperimenti velleitari, e le opere poetiche o drammatiche di Marinetti e dei suoi seguaci appaiono soffocate da una retorica che volendo essere antiretorica riesce anche più fastidiosa. 

F. T. Marinetti, Bombardamento di Adrianopoli, esempio di paroliberismo. Nel video sotto, il testo è recitato dallo stesso autore in una testimonianza per questo preziosa.





Del resto lo stesso Marinetti, dopo avere pubblicato il Manifesto tecnico del futurismo, nel 1912 pubblicò il Manifesto tecnico della letteratura futurista. Eccolo qui: 


Manifesto tecnico della letteratura futurista

In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato il ventre dalla testa dell’aviatore, io sentii l’inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero. Bisogno furioso di liberare le parole, traendole fuori dalla prigione del periodo latino! Questo ha naturalmente, come ogni imbecille, una testa previdente, un ventre, due gambe e due piedi piatti, ma non avrà mai due ali. Appena il necessario per camminare, per correre un momento e fermarsi quasi subito sbuffando!

Ecco che cosa mi disse l’elica turbinante, mentre filavo a duecento metri sopra i possenti fumaiuoli di Milano. E l’elica soggiunse:

1. Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.
2. Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all’infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la percepisce.
3. Si deve abolire l’aggettivo perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è incompatibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione.
4. Si deve abolire l’avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l’una all’altra le parole. L’avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.
5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguìto, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto.
Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza del mondo, la percezione per analogia diventa sempre più naturale per l’uomo. Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a. Meglio ancora, bisogna fondere direttamente l’oggetto coll’immagine che esso evoca, dando l’immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale.

6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo, che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s’impiegheranno i segni della matematica: + – x : = > <, e i segni musicali.
7. Gli scrittori si sono abbandonati finora all’analogia immediata. Hanno paragonato per esempio l’animale all’uomo o ad un altro animale, il che equivale ancora, press’a poco, a una specie di fotografia. Hanno paragonato per esempio un fox-terrier a un piccolissimo puro-sangue. Altri, più avanzati, potrebbero paragonare quello stesso fox-terrier trepidante, a una piccola macchina Morse. Io lo paragono, invece, a un’acqua ribollente. V’è in ciò una gradazione di analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre più profondi e solidi, quantunque lontanissimi.
L’analogia non è altro che l’amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico e polimorfo, può abbracciare la vita della materia.
Quando, nella mia Battaglia di Tripoli, ho paragonato una trincea irta di baionette a un’orchestra, una mitragliatrice a una donna fatale, ho introdotto intuitivamente una gran parte dell’universo in un breve episodio di battaglia africana.
Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsimonia, come diceva Voltaire. Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La poesia deve essere un seguito ininterrotto d’immagini nuove, senza di che non è altro che anemia e clorosi.
Quanto più le immagini contengono rapporti vasti, tanto più a lungo esse conservano la loro forza di stupefazione. Bisogna -dicono- risparmiare la meraviglia del lettore. Eh! via! Curiamoci, piuttosto, della fatale corrosione del tempo, che distrugge non solo il valore espressivo di un capolavoro, ma anche la sua forza di stupefazione. Le nostre orecchie troppe volte entusiaste non hanno forse già distrutto Beethoven e Wagner? Bisogna dunque abolire nella lingua ciò che essa contiene in fatto d’immagini stereotipate, di metafore scolorite, e cioè quasi tutto.

8. Non vi sono categorie d’immagini, nobili o grossolane, eleganti o volgari, eccentriche o naturali. L’intuizione che le percepisce non ha né preferenze né partiti-presi. Lo stile analogico è dunque padrone assoluto di tutta la materia e della sua intensa vita.
9. Per dare i movimenti successivi d’un oggetto bisogna dare la catena delle analogie che esso evoca, ognuna condensata, raccolta in una parola essenziale.
Ecco un esempio espressivo di una catena di analogie ancora mascherate e appesantite dalla sintassi tradizionale.
«Eh sì! voi siete, piccola mitragliatrice, una donna affascinante, e sinistra, e divina, al volante di un’invisibile centocavalli, che rugge con scoppi d’impazienza. Oh! certo, fra poco balzerete nel circuito della morte, verso il capitombolo fracassante o la vittoria!… Volete che io vi faccia dei madrigali pieni di grazia e di colore? A vostra scelta, signora… Voi somigliate, per me, a un tribuno proteso, la cui lingua eloquente, instancabile, colpisce al cuore gli uditori in cerchio, commossi… Siete in questo momento, un trapano onnipotente, che fora in tondo il cranio troppo duro di questa notte ostinata… Siete, anche, un laminatoio, un tornio elettrico, e che altro? Un gran cannello ossidrico che brucia, cesella e fonde a poco a poco le punte metalliche delle ultime stelle!» (Battaglia di Tripoli)
In certi casi bisognerà unire le immagini a due a due, come le palle incatenate, che schiantano, nel loro volo tutto un gruppo d’alberi.
Per avviluppare e cogliere tutto ciò che vi è di più fuggevole e di più inafferrabile nella materia, bisogna formare delle strette reti d’immagini o analogie, che verranno lanciate nel mare misterioso dei fenomeni. Salvo la forma a festoni tradizionale, questo periodo del mio Mafarka il futurista è un esempio di una simile fitta rete d’immagini:
«Tutta l’acre dolcezza della gioventù scomparsa gli saliva su per la gola, come dai cortili delle scuole salgono le grida allegre dei fanciulli verso i vecchi maestri affacciati al parapetto delle terrazze da cui si vedono fuggire sul mare i bastimenti…».
Ed ecco ancora tre reti d’immagini:
«Intorno al pozzo della Bumeliana, sotto gli olivi folti, tre cammelli comodamente accovacciati nella sabbia si gargarizzavano dalla contentezza, come vecchie grondaie di pietra, mescolando il ciac-ciac dei loro sputacchi ai tonfi regolari della pompa a vapore che dà da bere alla città. Stridori e dissonanze futuriste, nell’orchestra profonda delle trincee dai pertugi sinuosi e dalle cantine sonore, fra l’andirivieni delle baionette, archi di violini che la rossa bacchetta del tramonto infiamma di entusiasmo».
«È il tramonto-direttore d’orchestra, che con un gesto ampio raccoglie i flauti sparsi degli uccelli negli alberi, e le arpe lamentevoli degli insetti, e lo scricchiolio dei rami, e lo stridio delle pietre. È lui che ferma a un tratto i timpani delle gamelle e dei fucili cozzanti, per lasciar cantare a voce spiegata sull’orchestra degli strumenti in sordina, tutte le stelle dalle vesti d’oro, ritte, aperte le braccia, sulla ribalta del cielo. Ed ecco una gran dama allo spettacolo… Vastamente scollacciato, il deserto infatti mette in mostra il suo seno immenso dalle curve liquefatte tutte verniciate di belletti rosei sotto le gemme crollanti della prodiga notte». (Battaglia di Tripoli)

10. Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell’intelligenza cauta e guardinga, bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine.
11. Distruggere nella letteratura l’«io», cioè tutta la psicologia. L’uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella letteratura, e sostituirlo finalmente colla materia, di cui si deve afferrare l’essenza a colpi d’intuizione, la qual cosa non potranno mai fare i fisici né i chimici.
Sorprendere attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi la respirazione, la sensibilità e gl’istinti dei metalli, delle pietre, del legno, ecc. Sostituire la psicologia dell’uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della materia.
Guardatevi dal prestare alla materia i sentimenti umani, ma indovinate piuttosto i suoi differenti impulsi direttivi, le sue forze di compressione, di dilatazione, di coesione e di disgregazione, le sue torme di molecole in massa o i suoi turbini di elettroni. Non si tratta di rendere i drammi della materia umanizzata. È la solidità di una lastra d’acciaio, che c’interessa per se stessa cioè l’alleanza incomprensibile e inumana delle sue molecole o dei suoi elettroni, che si oppongono, per esempio, alla penetrazione di un obice. Il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante, per noi, del sorriso o delle lagrime di una donna.
Noi vogliamo dare, in letteratura, la vita del motore, nuovo animale istintivo del quale conosceremo l’istinto generale allorché avremo conosciuti gl’istinti delle diverse forze che lo compongono.
Nulla è più interessante, per un poeta futurista, che l’agitarsi della tastiera di un pianoforte meccanico. Il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano. Ci offre anche lo slancio a ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare e rimbalzano violentemente sul trampolino. Ci offre infine la corsa d’un uomo a 200 chilometri all’ora. Sono altrettanti movimenti della materia, fuor dalle leggi dell’intelligenza e quindi di una essenza più significativa.
Bisogna introdurre nella letteratura tre elementi che furono finora trascurati:
1. il rumore (manifestazione del dinamismo degli oggetti);
2. il peso (facoltà di volo degli oggetti);
3. l’odore (facoltà di sparpagliamento degli oggetti).
Sforzarsi di rendere per esempio il paesaggio di odori che percepisce un cane. Ascoltare i motori e riprodurre i loro discorsi.
La materia fu sempre contemplata da un io distratto, freddo, troppo preoccupato di se stesso, pieno di pregiudizi di saggezza e di ossessioni umane.
L’uomo tende a insudiciare della sua gioia giovane o del suo dolore vecchio la materia, che possiede un’ammirabile continuità di slancio verso un maggiore ardore, un maggior movimento, una maggiore suddivisione di se stessa. La materia non è né triste né lieta. Essa ha per essenza il coraggio, la volontà e la forza assoluta. Essa appartiene intera al poeta divinatore che saprà liberarsi dalla sintassi tradizionale, pesante, ristretta, attaccata al suolo, senza braccia e senza ali perché è soltanto intelligente. Solo il poeta asintattico e dalle parole slegate potrà penetrare l’essenza della materia e distruggere la sorda ostilità che la separa da noi.
Il periodo latino che ci ha servito finora era un gesto pretenzioso col quale l’intelligenza tracotante e miope si sforzava di domare la vita multiforme e misteriosa della materia. Il periodo latino era dunque nato morto.
Le intuizioni profonde della vita congiunte l’una all’altra, parola per parola, secondo il loro nascere illogico, ci daranno le linee generali di una psicologia intuitiva della materia. Essa si rivelò al mio spirito dall’alto di un aeroplano. Guardando gli oggetti, da un nuovo punto di vista, non più di faccia o per di dietro, ma a picco, cioè di scorcio, io ho potuto spezzare le vecchie pastoie logiche e i fili a piombo della comprensione antica.
Voi tutti che mi avere amato e seguìto fin qui, poeti futuristi, foste come me frenetici costruttori d’immagini e coraggiosi esploratori di analogie. Ma le vostre strette reti di metafore sono disgraziatamente troppo appesantite dal piombo della logica. Io vi consiglio di alleggerirle, perché il vostro gesto immensificato possa lanciarle lontano, spiegate sopra un oceano più vasto.
Noi inventeremo insieme ciò che io chiamo l’immaginazione senza fili. Giungeremo un giorno ad un’arte ancor più essenziale, quando oseremo sopprimere tutti i primi termini delle nostre analogie per non dare più altro che il seguito ininterrotto dei secondi termini. Bisognerà, per questo, rinunciare ad essere compresi. Esser compresi, non è necessario. Noi ne abbiamo fatto a meno, d’altronde, quando esprimevamo frammenti della sensibilità futurista mediante la sintassi tradizionale e intellettiva.
La sintassi era una specie di cifrario astratto che ha servito ai poeti per informare le folle del colore, della musicalità, della plastica e dell’architettura dell’universo. La sintassi era una specie d’interprete o di cicerone monotono. Bisogna sopprimere questo intermediario, perché la letteratura entri direttamente nell’universo e faccia corpo con esso.
Indiscutibilmente la mia opera si distingue nettamente da tutte le altre per la sua spaventosa potenza di analogia. La sua ricchezza inesauribile d’immagini uguaglia quasi il suo disordine di punteggiatura logica. Essa mette capo al primo manifesto futurista, sintesi di una 100 HP lanciata alle più folli velocità terrestri.
Perché servirsi ancora di quattro ruote esasperate che s’annoiano, dal momento che possiamo staccarci dal suolo? Liberazione delle parole, ali spiegate dell’immaginazione, sintesi analogica della terra abbracciata da un solo sguardo e raccolta tutta intera in parole essenziali.
Ci gridano: «La vostra letteratura non sarà bella! Non avremo più la sinfonia verbale, dagli armoniosi dondolii, e dalle cadenze tranquillizzanti!». Ciò è bene inteso! E che fortuna! Noi utilizziamo, invece, tutti i suoni brutali, tutti i gridi espressivi della vita violenta che ci circonda. Facciamo coraggiosamente il «brutto» in letteratura, e uccidiamo dovunque la solennità. Via! non prendete di queste arie da grandi sacerdoti, nell’ascoltarmi! Bisogna sputare ogni giorno sull’Altare dell’Arte! Noi entriamo nei domini sconfinati della libera intuizione. Dopo il verso libero, ecco finalmente le parole in libertà!
Non c’è, in questo, niente di assoluto né di sistematico. Il genio ha raffiche impetuose e torrenti melmosi. Esso impone talvolta delle lentezze analitiche ed esplicative. Nessuno può rinnovare improvvisamente la propria sensibilità. Le cellule morte sono commiste alle vive. L’arte è un bisogno di distruggersi e di sparpagliarsi, grande innaffiatoio di eroismo che inonda il mondo. I microbi – non lo dimenticate – sono necessari alla salute dello stomaco e dell’intestino. Vi è anche una specie di microbi necessaria alla vitalità dell’arte, questo prolungamento della foresta delle nostre vene, che si effonde, fuori dal corpo, nell’infinito dello spazio e del tempo.
Poeti futuristi! Io vi ho insegnato a odiare le biblioteche e i musei, per prepararvi a odiare l’intelligenza, ridestando in voi la divina intuizione, dono caratteristico delle razze latine. Mediante l’intuizione, vinceremo l’ostilità apparentemente irriducibile che separa la nostra carne umana dal metallo dei motori.
Dopo il regno animale, ecco iniziarsi il regno meccanico. Con la conoscenza e l’amicizia della materia, della quale gli scienziati non possono conoscere che le reazioni fisico-chimiche, noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall’idea della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell’intelligenza logica.


Ciò non toglie che grandi scrittori, da Ardengo Soffici ad Aldo Palazzeschi a Massimo Bontempelli, abbiano compiuto i primi passi sotto l’insegna del futurismo, presi da quell’ansia di rinnovamento, di adeguazione a un piano di cultura europeo, di libertà espressiva, che era pure al fondo di questo tumultuoso movimento; né che lo stesso Pirandello si sia giovato, per il suo teatro, di certi ritrovati tecnici del futurismo. 

Nel video è recitata e interpretata la poesia di Palazzeschi "E lasciatemi divertire".


Una poesia in versi liberi, strofe di diversa misura, ricorrenza di onomatopee e, in buona percentuale, forse prive di significato; nella sua canzonetta Palazzeschi si ispira chiaramente ai modi poetici del movimento futurista, pur avendo mosso le sue prime mosse in sintonia con i poeti crepuscolari. Il poeta è spesso, in diverse sue poesie, dedito alla desacralizzazione di una moralità portata avanti da echi dei grandi scrittori del passato, all’incirca fino al periodo positivista, e tende a mettere in ridicolo ciò che è stato fino ad allora presentato come serio, consueto e intoccabile, divertendosi nei confronti di topoi, quasi sacralizzati, della letteratura italiana. In questa poesia è ben noto il suo stile che segue la poetica del “controdolore”, da lui stesso teorizzata in una rivista in cui enuncia un suo manifesto poetico; egli incide con violenza sul foglio bianco la capacità dell’uomo di sorridere e il suo essere unico in mezzo ad altri esseri viventi. Palazzeschi sostiene che il dolore è proprio delle persone superficiali, in quanto l’eccessiva serietà nasce da un’invidia e da una forte pienezza di sé, il che porta la figura del poeta messaggero a decadere. In questi versi l’autore si abbandona completamente alla propria gioia e al proprio divertimento, non avendo più nulla da insegnare alla società e ai suoi lettori, e gioca fisicamente con i suoni più assurdi e le grida più scomposte, ridicolizzando un’immagine di sé che non porta alcun genere di valori. Sono noti anche gli ultimi versi di una poesia in cui Palazzeschi si autodefinisce:
(…)
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
Il poeta è un bambino che gioca con la propria anima e con la sua caricatura, anche di fronte ad interlocutori borghesi, come potrebbero essere quelli di questa poesia. In un dialogo, quindi, fra l’io del poeta e gli interlocutori, portatori di una diversa morale, la poesia perde ogni senso e ogni scopo sociale, mostrandosi solo come pure strumento di divertimento dell’artista, che la sa utilizzare comunque con maestria e genialità non indifferente e per nulla nascosta. Infine la poesia termina con una conclusione velatamente seria e quasi polemica: la poesia non ha più nulla da insegnare, in quanto la società non richiede più niente ai poeti; perciò l’io poetico è costretto a scomparire per fare spazio ad un io che sorride, come se fosse un privilegio esclusivo di chi sa come giocare con la sua arte.

In sintesi: 







IL CREPUSCOLARISMO

La poesia crepuscolare fiorì tra il 1905 e il 1915, in piena età giolittiana. 

La denominazione è dovuta al critico Giuseppe Antonio Borgese che pubblicò nel 1910 un saggio dal titolo “Poesia crepuscolare”. Vi si esaminava l’opera dei poeti Marino Moretti, Fausto Maria Martini e Carlo Chiaves. A Borgese parve che la stagione della grande poesia si fosse conclusa con la pubblicazione delle “Laudi” dannunziane e dei “Poemetti” pascoliani e che ormai la letteratura andasse spegnendosi in un mite e lunghissimo crepuscolo. Il termine incontrò fortuna e nell’ambito di questo indirizzo furono successivamente inclusi anche altri poeti tra cui Guido Gozzano, Sergio Corazzini, Corrado Govoni.

Il Crepuscolarismo pertanto non fu una vera e propria scuola poetica, ma un movimento costituito da personalità diverse e tuttavia accomunate da atteggiamenti psicologici e da orientamenti poetici. La condizione esistenziale comune ai crepuscolari fu quella caratterizzata da una certa stanchezza interiore, da una volontà di non apparire, di rimpicciolirsi e considerarsi uomini di poco conto (atteggiamento questo che porterà per esempio G. Gozzano a nominarsi in una sua lirica come “guidogozzano”, o Corazzini a dire: “Perché tu mi dici: poeta? / io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange”. 

I poeti crepuscolari espressero  una visione nostalgica del  passato; vissero il disagio dell’eclissamento dei grandi ideali dell’età risorgimentale, della perdita di entusiasmo per la fede, per la scienza e per il progresso. Distrutti pertanto gli ideali, le fedi, le ragioni dell’operare, spenta ogni facoltà di adesione piena, di impegno profondo, di partecipazione totale, rimase in loro un residuo di nostalgia, di rimpianto, che si manifestò in una rinunzia a vivere e la vita e in una volontà  di osservarla e descriverla.

Ora nella somma di questi atteggiamenti ci fu certamente anche una componente letteraria. I crepuscolari infatti si richiamavano a modelli stranieri, soprattutto ai decadenti francesi, nello stesso tempo essi intesero opporsi al dannunzianesimo imperante: furono contro il superomismo, l’attivismo, il vitalismo. 

Rifiutarono la concezione lussuriosa dell’amore, le donne fatali, il vivere inimitabile, la volontà di potenza e la vita politica attiva come la militanza partitica. Si volsero piuttosto verso un certo pascolismo di maniera, quello dei sentimenti semplici e puri, del vivere con modestia e con pochi ma sicuri affetti per cui poi cantarono  il quotidiano, l’ordinario, ciò che è semplice ed umile. I temi prediletti dalla poesia crepuscolare furono così quelli che essi chiamarono de “le buone cose di pessimo gusto”: la periferia delle città, gli ambienti di provincia, le vecchie case, i vecchi quartieri, il suono degli organetti di Barberia, le corsie di ospedale, i giardinetti pubblici un po’ trascurati, le serate domenicali trascorse nelle case borghesi con “Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone / i fiori in cornice.../ il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti / i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro / un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, / gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco...” (ancora Gozzano). 

E se la poesia dannunziana era stata dominata dalle donne fatali, lussuriose e di ineffabile bellezza, essi predilessero gli amori ancillari, le casalinghe dalle guance rosee, le donne non troppo belle, tanto che in una poesia Gozzano così scrive: “Sei quasi brutta, priva di lusinga / nelle tue vesti quasi campagnole / ma la tua faccia buona e casalinga / ma i bei capelli di color di sole / attorti in minutissime trecciuole / ti fanno un tipo di beltà fiamminga // E rivedo la tua bocca vermiglia / così larga nel ridere e nel bere / e il volto quadro senza sopracciglia / tutto sparso d’efelidi leggere / e gli occhi fermi, l’iridi sincere / azzurre d’un azzurro di stoviglie”.

Della poesia decadente essi insomma accolgono quei temi, quei motivi, quegli spunti che si prestano alla espressione dei loro particolari contenuti, quotidiani e dimessi, della loro stanchezza di vivere, della loro incapacità di entusiasmi, della loro condizione di naufraghi sballottati e travolti dall’onda nel mare della vita”.

Ora di tutti i poeti crepuscolari si possono qui considerare Guido Gozzano, come il maggiore, Moretti e Corazzini, come i più significativi tra gli altri.

In sintesi: