Credo molto nelle potenzialità dei social network e vi sto di fatto spendendo le mie migliori energie. Sono convinta che una scuola 2.0 debba affiancare a un solido studio dei contenuti una diffusione degli stessi in un formato appetibile e soprattutto vicino alle modalità di comunicazione degli studenti, che di certo al giorno d'oggi non scrivono soltanto con carta e penna, ma ricorrono spesso alla leggerezza dei bits. Qualcosa che del resto già Calvino aveva preconizzato nelle sue Lezioni Americane.

Confrontarsi con il pubblico della comunità social, ben più vasto del microcosmo classe (e potenzialmente infinito), proponendo il proprio lavoro, significa per gli studenti sviluppare ottime doti di sintesi nell'esposizione dei contenuti e mantenere buon controllo ortografico. Non solo, essi devono imparare a scrivere in modo accattivante e spigliato, così da ottenere l'attenzione dei lettori, nonché variare il registro stilistico a seconda delle diverse situazioni comunicative.

giovedì 14 aprile 2016

Sebastiano Timpanaro e il materialismo di Leopardi


Mentre molti studi classici su Leopardi sono decisamente invecchiati nelle idee come nel linguaggio,  quelli di Sebastiano Timpanaro mantengono un grande interesse.  Ciò è dovuto in buona parte allo stile saggistico di questo autore,  improntato a una chiarezza e ad una comunicatività esemplari.  La tesi di Timpanaro è che l'attualità di Leopardi (il “valore permanente” del suo pensiero)  sia nella sua visione strettamente materialistica dell'esistenza,  ben diversa da quella del materialismo di orientamento marxista e,  diversamente da quello,  molto più comprensiva e generale.  Si propone di seguito un brano da “Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano”.

Il pessimismo del Leopardi,  nella sua seconda e più matura fase,  trae origine appunto dalla constatazione di certi dati fondamentali della vita fisica dell'uomo (“vecchiezza e morte”)  che sono in contrasto con quella aspirazione alla felicità che è,  anch'essa,  una tendenza naturale dell'uomo.  Il Leopardi non ignora affatto  che anche la natura   ha la sua storicità,  ma sa che è  una storicità di ritmo incomparabilmente più lento,  di carattere meccanico e inconsapevole,  a cui non si può attribuire alcun teleologismo o  provvidenzialismo.   Egli non ignora nemmeno la possibilità di forzare la natura stessa (basti  ricordare quel pensiero sulla “futura civilizzazione dei bruti e massime di qualche specie,  come delle scimmie,  da operarsi dagli uomini a lungo andare”,  in modo da poter associare anche questi animali “alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro la natura e contro alle cose non intelligenti”);  ma ritiene che tale intervento dell'uomo sulla natura non potrà mai giungere a modificare quei dati fondamentali a cui accennavamo sopra,  dai quali inevitabilmente scaturisce l'infelicità.
In questo senso schiettamente materialistico si può,  a mio parere, parlare di un valore permanente del pessimismo leopardiano,  senza nulla concedere a interpretazioni metafisiche ed esistenzialistiche  del pensiero del Leopardi e senza affatto rinunciare  a indagare le esperienze concrete -  individuali e storico sociali -  da cui quel pessimismo nacque.

Caspar David FriedrichThe Sea of Ice (1823–24)


A più riprese,  nel suo saggio,  Luporini osserva che ciò che impedì al  Leopardi di sviluppare fino in fondo il nucleo progressista del suo pensiero fu la mancanza della dialettica,  il nuovo strumento mentale che si andava elaborando in quegli anni nella filosofia tedesca.  Il Leopardi, anzi, arriverebbe alle soglie del concetto dialettico in quel gruppo di pensieri dello Zibaldone in cui nota che le “contraddizioni palpabili che sono in natura” (aspirazione naturale dei viventi alla felicità e impossibilità naturale di conseguirla:  perpetuazione della vita della specie che si attua solo attraverso la distruzione degli individui)  sembrerebbero infirmare la validità del principio stesso che non può una cosa insieme essere o non essere,  su cui si basa la nostra ragione.  Ora,  è indubbio che qui il Leopardi constata una difficoltà logica che gli appare,  giustamente,  insolubile col vecchio strumento della logica aristotelica.  Ma supporre che l'acquisizione di un nuovo strumento teoretico (la logica dialettica)  avrebbe indicato al Leopardi,  o possa indicare a un leopardiano del secolo  XX,  la via per superare il pessimismo,  significa disconoscere il carattere tutto pratico,  sensistico-edonistico,  del pessimismo leopardiano.  per un pensatore così profondamente antiteoreticista,  antimetafisico come Leopardi,  l'infelicità non si supera dialettizzandola  sul piano logico,  ma soltanto (ove ciò sia possibile)  eliminandola di fatto.  Dopo aver messo in risalto l'incomprensibilità -  dal punto di vista della logica formale  - della contraddizione tra vitalità e infelicità,  il Leopardi soggiunge,  quasi a mettere in guardia contro ogni attenuazione del secondo termine: “intanto l'infelicità necessaria dei viventi è certa” (Zibaldone, p. 4100).
Non c'è bisogno,  a guardar bene,  di far la storia con un “se” (“se Leopardi avesse conosciuto la logica dialettica…”).  La tesi provvidenzialistica secondo la quale Dio  o la natura  consegue,  pur attraverso l'infelicità dei singoli individui,  la felicità generale dell'umanità,  o la variante della stessa tesi,   secondo cui la civiltà moderna assicurerebbe,  se non la felicità degli individui,  la felicità delle masse,  erano,  a loro modo,  tentativi di superamento dialettico del pessimismo.  Non si vuole certo,  con ciò,  equipararli alla logica hegeliana sul piano teoretico:  si vuol dire soltanto che esercitarono una funzione analoga in rapporto al problema dell'infelicità umana.  Il pessimismo sarebbe effetto di una considerazione frammentaria e statica della realtà,  di un'incapacità di vedere il singolo nella sua relazione con il tutto.  Ebbene,  il Leopardi,  seguendo Voltaire e andando molto oltre Voltaire,  non si è mai stancato di respingere e di deridere tale soluzione dialettica,  proprio perché essa è una soluzione  illusoria,  una negazione ideale che maschera la reale incapacità di liberare l'uomo dall'oppressione che su di esso esercita la natura.

Sotto questo aspetto,  la polemica leopardiana contro gli apologeti della divinità o della natura presenta una reale analogia con la polemica marxista contro la pretesa degli hegeliani (e di tutta una millenaria tradizione filosofica)  di sopprimere l'alienazione umana nel pensiero e non,  prima di tutto,  nella realtà:  di giustificare il mondo e non di cambiarlo.  Soltanto,  per il pensiero marxista la realtà che è causa dell'infelicità umana è essenzialmente  una realtà economico-sociale;  per il Leopardi è essenzialmente una realtà fisico biologica.  Per il marxista la forza condizionatrice della natura sull'uomo si è esercitata soprattutto ai primordi dell'umanità,  in una specie di prologo o di antefatto preistorico:  da quando l'uomo ha cominciato a lavorare e a produrre,  la natura avrebbe cominciato a ridursi (e sempre più si ridurrebbe in futuro)  a mero oggetto di attività umana:  l'uomo storico metterebbe sempre più in ombra,  e alla fine assorbirebbe e supererebbe del tutto l'uomo naturale.  Per il Leopardi la natura conserva anche di fronte all'uomo civilizzato tutta la sua formidabile forza lavoratrice e distruttrice:  perciò la lotta dell'uomo contro la natura si configura nel pensiero leopardiano come una lotta disperata,  e la distruzione di tutti i miti non dà luogo a una visione ottimistica  della realtà,  ma a un pessimismo lucido e combattivo.