Nel corso dell'Ottocento
diviene sempre più raro il caso dello scrittore che, grazie alle sue rendite, si permette di
trascurare i guadagni che gli potrebbero provenire dalla attività. Anzi,
comincia già fin dai primi decenni del secolo a comparire la figura dello scrittore che cerca di vivere
con quello che ricava dalla sua professione intellettuale. Leopardi ad esempio è nobile, ma le sostanze della famiglia non gli
consentono di soggiornare lontano dalla sua piccola città di provincia,
Recanati, nei grandi centri dove serve
la vita intellettuale. Deve perciò
adattarsi ad accettare un compenso mensile da un editore milanese, lo Stella,
per alcuni lavori letterari, un commento al Canzoniere di Petrarca,
un'antologia della poesia italiana è una della prosa. Il padre, il conte
Monaldo, che è un uomo all'antica, il 6 ottobre 1825 scrive al figlio
esprimendo tutte le sue perplessità per un'attività volta dietro compenso, che gli sembra umiliante per un uomo di rango
nobiliare ( Leopardi aveva anche accettato di impartire lezioni di latino a un giovane greco): “ piuttosto che mettersi
allo stipendio di uno stampatore mercante, avrei creduto meglio il pattuire che
vi pagasse i vostri scritti un tanto al foglio, e così, piuttosto che ricevere otto scudi mensili dal greco che vuole imparare il
latino, mi avrei accettato un dono non pattuito. Secondo le nostre
antiche idee, e forse pregiudizi, questi emolumenti mensili mi sembrano
alquanto umilianti”. Monaldo testimonia così la mentalità dell'aristocratico,
per cui percepire uno stipendio per una prestazione intellettuale risulta
disonorevole. Il figlio, rispondendo con
pacatezza ma anche con fermezza, dimostra invece una mentalità ben più aperta:
“ I lavori poi che io debbo fare, sono interissimamente a mia disposizione, giacche
Stella non mi ha detto e ripetuto altro, se non che egli spera che le opere che
io farò non le manderò ad altri che a lui. In
queste cose a me pare che non vi sia nulla di umiliante. Quello che io ricevo dal greco sarebbe forse un poco
meno nobile, come è seccantissima per me
quell'ora che passo con lui. Nondimeno nelle idee di questa città non vi è nulla
di vile
annesso alla funzione di precettore, anzi qui tutti i letterati
forestieri si chiamano professori”. Come
si vede, la condizione è che il
contratto con l'editore gli lasci intera
la sua libertà intellettuale; per il resto lavorare per un compenso mensile
sembra al poeta del tutto decoroso, così come insegnare.
Questa mentalità
più moderna nel rapporto dell'attività intellettuale con il denaro si
riscontra ugualmente presso Manzoni.
Anch’egli è nobile e, a differenza di Leopardi, grazie alle rendite può
dedicarsi in piena libertà agli studi e alla scrittura. Però, nel pubblicare
l'edizione definitiva dei Promessi Sposi
nel 1840- 1842, non esita a lanciarsi in un'impresa commerciale, diventando di
se stesso e mettendo a proprie spese sul mercato le coppie del suo romanzo in
una bella edizione illustrata. L’ impresa risponde soprattutto all'esigenza di
stroncare la concorrenza sleale: non
essendovi leggi che regolassero il diritto d'autore, esistevano numerose
edizioni del romanzo ( che era stato un vero best seller), da cui all'autore non giungeva alcun
provento. Manzoni sperava che la nuova edizione riveduta e riccamente
illustrata togliesse dal mercato le altre edizioni per così dire “pirata”. L’
impresa non andò secondo i suoi calcoli
e pile intere di volumi rimasero invendute, con grave danno economico
dell'autore. Il tentativo editoriale rivela però in Manzoni una chiara
consapevolezza dei problemi che si pongono allo scrittore nei suoi rapporti con
il mercato nel mondo ormai borghese, in
cui quella del mercato è la legge dominante. La
modernità di visione dello
scrittore è testimoniata anche dal suo
impegno a favore di una legislazione che tutelasse il diritto d'autore,
condizione indispensabile per l'affermarsi di una figura nuova di scrittore,
svincolato sia dalla rendita feudale sia dalla condizione subalterna del
cortigiano, che era durata secoli.
Questa consapevolezza
dell'importanza del diritto d'autore si può riscontrare in uno scrittore che è
ormai, nella seconda metà dell'Ottocento, pienamente inserito nel mondo
borghese e ne riflette in modo perfetto la mentalità: Emile Zola. Il caposcuola
Naturalismo letterario dedica al problema un saggio molto interessante,
intitolato Il denaro nella letteratura,
pubblicato nel 1880 nel volume Il
romanzo sperimentale. Lo scrittore prende le mosse ricordando le
recriminazioni, ricorrenti ai suoi tempi, sullo spirito letterario che
scompare, sulle lettere sopraffatte dal mercantilismo, sul denaro che uccide lo
spirito e fa dello scrittore un mercante
come un altro, che vende o non vende la propria merce secondo il marchio di
fabbrica. Zola riconosce che si è verificata una
trasformazione e prima di esprimersi su di essa vuole esaminare le condizioni
degli scrittori nei secoli passati: essi erano cortigiani, osserva, parassiti mantenuti dai signori, e
ritenevano un onore godere delle loro
prebende. Il cosiddetto “
spirito letterario” non era che il
frutto dell'otium assicurato dalla loro posizione parassitaria. Le lettere si
intonavano ai gusti della società aristocratica, alle norme delle accademie,
che generavano infinite dispute
retoriche. Oggi invece, continua Zola, lo scrittore può vivere del suo lavoro,
nel giornalismo, scrivendo romanzi o testi per il teatro. Questa indipendenza
economica a suo avviso va vista con
favore, come fonte di maggior dignità per lo scrittore: “ Oggi l'idea più alta
che noi ci facciamo di uno scrittore è quella di un uomo libero da ogni
costrizione... che ricava la sua vita, il suo talento, la sua gloria solo da sé
stesso”. Oggi non esistono più i piccoli cenacoli d'elite, ma si va formando il
grande pubblico. La democrazia arriva nel mondo delle lettere. Ciò che oggi
rende lo scrittore degno e rispettato è
il denaro. È sciocco, sostiene con forza
Zola, declamare contro il denaro, contro l’avvilimento delle lettere che
sacrificano al vitello d'oro. Coloro che
così ritengono non capiscono che il denaro è fonte di giustizia e
libertà. Lo scrittore attuale deve la sua dignità al denaro. Il guadagno
legittimamente tratto dalle sue opere lo
ha liberato da ogni protezione umiliante di signori e principi, ha fatto del
buffone di corte un cittadino libero. Grazie al denaro lo scrittore ha osato
dire tutto, ha indirizzato la sua critica a tutto, anche al re, a Dio. Il denaro ha emancipato lo scrittore e ha creato le
lettere moderne; chi ha talento arriva al successo, solo i mediocri falliscono. La selezione naturale, liberata da ogni
protezione e da ogni privilegio, fa emergere i migliori. È inutile quindi
rimpiangere la letteratura del passato: oggi la nostra società democratica,
insiste Zola, comincia ad avere le sue espressioni.Come si vede, in questo inno
al denaro come garanzia dell'indipendenza degli scrittori e della selezione dei
più dotati Zola si rivela un perfetto
rappresentante dello spirito borghese, che considera lo scrittore un produttore
alla pari degli altri, giustamente indotto a competere nel mercato per affermarsi.
Una concezione diametralmente opposta viene
invece enunciata, pochi anni dopo, da D'Annunzio, nel quale si esprime lo
spirito violentemente antiborghese dell'intellettualità decadente ed
estetizzante, che prova disgusto del denaro e del mercato ed erige
l'arte a supremo valore, oggetto di un vero e proprio culto religioso.
Significative a tal proposito sono le affermazioni che lo scrittore mette in
bocca a un suo personaggio, il protagonista del Piacere, Andrea Sperelli, che in questo caso è suo diretto
portavoce ( ripete infatti ciò che D'Annunzio stesso aveva scritto in un
articolo pubblicato sul giornale “ La tribuna”). La bella Elena Muti gli
chiede: “ Perché voi rimanete così lontano dal grande pubblico?”; il raffinato artista così risponde:
Il mio sogno è l’Esemplare Unico da offrire
alla Donna Unica. In una società democratica com'è la nostra, l'artefice di
prosa o di verso deve rinunciare ad ogni
benefizio che non sia d amore. Il lettore vero non è già chi mi compra ma chi
mi ama. Il lettore vero e dunque la dama benevolente... La vera gloria è
postuma, quindi non godibile. Che importa a me di avere, per esempio, cento
lettori nell'isola dei Sardi e anche
dieci ad Empoli e cinque,
mettiamo, ad Orvieto? E quale
voluttà mi viene dall'essere conosciuto
quanto il confettiere Tizio o il profumiere Caio? Io, autore, andrò nel
cospetto dei posteri armato come potrei meglio;
ma io, uomo, non desidero altra corona di trionfo è una... di belle
braccia ignude.
Risolta con evidenza da queste battute un
rifiuto radicale della letteratura come merce da offrire sul mercato, fino alla
negazione della comunicazione stessa tra autore e pubblico, sostituita
dalla comunicazione erotica tra lo scrittore e la Donna Unica,
conquistata dal libro come strumento di seduzione. Erotismo ed estetismo si
combinano per negare la visione borghese fondata sulla centralità del denaro e
del profitto.
In realtà D'Annunzio era molto attento alla
diffusione dei suoi libri tra il pubblico: se ne trovano innumerevoli documenti
tra le sue lettere, in cui egli
contratta accanitamente con gli editori i compensi per le sue opere, rivelando
uno spirito affaristico molto scaltrito.
Si veda questo passo da una lettera al suo editore, Emilio Treves, che
riguarda proprio la pubblicazione del
Piacere, il romanzo da cui è tratto
il passo sopra citato:
Io sono favorevole al sistema del tanto per
copia. Mi pare il migliore perché il più giusto. Se il mio libro avrà un ampio
successo, come io mi auguro, sarà bene per me per il mio editore. Se no, il rischio sarà uguale per entrambi. Io chiedo, per ogni copia il quarto del prezzo di vendita.
Mettiamo che il volume sia messo in vendita a lire 4, io chiedo per ogni copia una lira... Desidero che il volume non
si venda ameno di lire 4, perché il pubblico è abituato a comprare caro i
miei libri... Credo che le mie condizioni le debbano convenire. Nel caso,
dunque, che convengano, spero che potremo metterci d'accordo anche per i miei
libri futuri.
Questa volontà di conquistare
il pubblico è riconoscibile anche nel modo in cui i libri dannunziani sono
costruiti, nella ricerca dei personaggi,
delle vicende, degli ambienti che possano affascinare il lettore borghese, trasportandolo in un mondo di
lusso, eleganza raffinata e arte, in cui
si consumano passioni travolgenti tra esseri eccezionali e si stringono
scandalosi legami erotici: in tal modo
chi legge può evadere dalla sua grigia realtà quotidiana. Era questo un
programma consapevolmente e deliberatamente perseguito da D'Annunzio, come
rivela questa dichiarazione rilasciata in un'intervista:
Tra il
romanzo sottile appassionato e perverso, che
la dama assapora con lentezza
voluttuosa nella malinconia del suo salotto aspettando, e il romanzo di
avventure sanguinarie, che la plebea
divora seduta al banco della sua bottega, c'è soltanto una differenza di
valore. Ambedue i volumi servono ad appagare un medesimo bisogno, un medesimo
appetito: il bisogno del sogno,
l'appetito sentimentale. Ambedue in diverso modo ingannano un’ inquieta
aspirazione ad uscire fuori dalla realtà
mediocre, un desiderio vago di trascendere l'angustia della vita comune, una
smania quasi incosciente di vivere una vita più fervida e più complessa.
E lo scrittore era anche molto abile nell'organizzare il lancio pubblicitario
delle sue opere: ad esempio, per stimolare le vendite del Piacere, fece diffondere col volume
delle incisioni dell'amico Aristide Sertorio, facendole passare per le
opere dell’eroe del romanzo, raffinato
acquafortista. È evidente che questi comportamenti contraddicono le
affermazioni contenute nel romanzo. Ma quelle di D'Annunzio sono le
contraddizioni inevitabili dello scrittore nella piena età borghese: per quanto voglia opporsi al mercato in nome
dell'ideale della bellezza, con il
mercato non può evitare di fare i conti,
se vuol sopravvivere e se aspira ad
essere letto.
D'Annunzio, grazie alle sue abili strategie
promozionali e alla forza contrattuale presso gli editori, garantitagli
dal mito che aveva saputo crearsi, guadagnò molto con i suoi libri, anche se le
ingenti somme versategli non bastavano
mai per far fronte agli sperperi
inauditi del suo “ vivere inimitabile”. Gli altri scrittori
italiani tra fine ‘800 e primi del ‘900 non erano in grado invece di vivere con
i soli proventi dei loro libri e dovevano far conto su altre entrate. Verga
godeva delle rendite di suoi possedimenti
fondiari; Svevo dopo il matrimonio divenne un ricco industriale,
mentre prima era un semplice impiegato di banca; Carducci e Pascoli erano insegnanti universitari, come pure
Pirandello, che per arrotondare il modesto stipendio collaborava ai giornali
con le sue novelle, e solo dopo il successo teatrale poté lasciare
l'insegnamento. Degli scrittori maggiori della pieno ‘900 ben pochi poterono
vivere dei soli diritti d'autore. Ungaretti fu insegnante e giornalista, Montale diresse per un certo periodo il
Gabinetto Viesseux a Firenze e fu anche egli giornalista. Pavese, dopo qualche esperienza di
insegnamento, divenne redattore della casa editrice Einaudi, così come Calvino, che solo dopo il successo dei suoi libri
poté vivere dei soli diritti d'autore.
Pasolini fu insegnante in gioventù,
attraversò anni difficili, ma poi ebbe successo come regista cinematografico.
Moravia, oltre a essere di famiglia ricca, grazie alle alte tirature
dei suoi romanzi poteva contare su cospicui diritti d'autore, però
svolse per tutta la vita la professione di giornalista e pubblicista.
Nessun commento:
Posta un commento