Credo molto nelle potenzialità dei social network e vi sto di fatto spendendo le mie migliori energie. Sono convinta che una scuola 2.0 debba affiancare a un solido studio dei contenuti una diffusione degli stessi in un formato appetibile e soprattutto vicino alle modalità di comunicazione degli studenti, che di certo al giorno d'oggi non scrivono soltanto con carta e penna, ma ricorrono spesso alla leggerezza dei bits. Qualcosa che del resto già Calvino aveva preconizzato nelle sue Lezioni Americane.

Confrontarsi con il pubblico della comunità social, ben più vasto del microcosmo classe (e potenzialmente infinito), proponendo il proprio lavoro, significa per gli studenti sviluppare ottime doti di sintesi nell'esposizione dei contenuti e mantenere buon controllo ortografico. Non solo, essi devono imparare a scrivere in modo accattivante e spigliato, così da ottenere l'attenzione dei lettori, nonché variare il registro stilistico a seconda delle diverse situazioni comunicative.

lunedì 20 gennaio 2014

Il pensiero delle 18 meno quasi (eppure ricorrente)



Come potrebbe un sedicenne, ma un diciassettenne o un diciottenne – mi chiedo con dolente amarezza – non credere che il latino e il greco siano lingue morte, se lo si obbliga a tenere lo sguardo abbassato su elenchi infiniti e infinitamente grigi di desinenze, eccezioni ed eccezioni di eccezioni, dandogli a credere che fine ultimo (prima di tutto per passare l’anno!!!) sia mandarli a memoria e negandogli, di fatto, anche solo la possibilità di scoprire che uno straordinario mondo di idee, colori e suoni in quelle lingue ha preso forma per giungere fino a lui, tirarlo per la giacca e interrogarlo sul senso del quotidiano vivere in nome di un’appartenenza “umana” che va ben oltre ogni “qui ed ora”? 
Che l’ablativo del sostantivo “mare” sia in “i” e non in “e” potrà ricordarglielo in qualsiasi momento un qualsiasi manuale (cartaceo o digitale che sia), ma su quel mare dovrebbe soprattutto imparare a viaggiare un sedicenne, in compagnia di altri che prima di lui lo percorsero, come Ulisse o Enea, ad esempio, facendosi carico di tutto quello che essi portavano nel cuore e nella mente. E dove il sedicenne dovrebbe impararlo se non a scuola?

Provo, dunque, un’amarezza dolente nel vedere che tanti, troppi insegnanti, soprattutto giovani ahimè, per quanto paradossale e incredibile possa sembrare, riproducono stancamente (chiusi in una rigidità che li fa sentire “forti” e protetti, ma che niente ha a che vedere col rigore che ogni disciplina mentale richiede) vecchi e stantii modelli, percorrendo strade le cui pietre miliari sono elenchi infiniti e infinitamente grigi di desinenze, eccezioni ed eccezioni di eccezioni, e lungo le quali un sedicenne, tutt’al più, si imbatte in “ancelle che ornano di rose e di viole gli altari delle dee” o in “truppe che escono dall’accampamento sul far del giorno”.

E il mio pensiero non può che volgersi con struggente gratitudine all’insegnante che ormai qualche decina di anni fa mi fece alzare lo sguardo da quegli infiniti elenchi e seppe mostrarmi la Bellezza di guardare la luna e non il dito che la indica.

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