Credo molto nelle potenzialità dei social network e vi sto di fatto spendendo le mie migliori energie. Sono convinta che una scuola 2.0 debba affiancare a un solido studio dei contenuti una diffusione degli stessi in un formato appetibile e soprattutto vicino alle modalità di comunicazione degli studenti, che di certo al giorno d'oggi non scrivono soltanto con carta e penna, ma ricorrono spesso alla leggerezza dei bits. Qualcosa che del resto già Calvino aveva preconizzato nelle sue Lezioni Americane.

Confrontarsi con il pubblico della comunità social, ben più vasto del microcosmo classe (e potenzialmente infinito), proponendo il proprio lavoro, significa per gli studenti sviluppare ottime doti di sintesi nell'esposizione dei contenuti e mantenere buon controllo ortografico. Non solo, essi devono imparare a scrivere in modo accattivante e spigliato, così da ottenere l'attenzione dei lettori, nonché variare il registro stilistico a seconda delle diverse situazioni comunicative.

lunedì 16 novembre 2020

Dante, Paradiso XI, Introduzione




Siamo nel cielo del Sole.
Gli spiriti sapienti, presentati a Dante da san Tommaso nel canto precedente, hanno appena terminato la loro danza circolare, accompagnata da un’armonia così divina che, ha appena detto il poeta, può essere intesa solo in Paradiso, colà dove gioir s’insempra. Sull’eco di quella inesprimibile melodia si apre il nuovo canto: con una chiosa a quella gioia paradisiaca sigillata da quell’audace sillogismo (s’insempra = dura per sempre). La chiosa è il confronto, che Dante non può fare a meno di formulare, tra la gloriosa felicità di questo cielo del Sole e le passioni che affaticano gli uomini sulla terra, viste ormai con commiserazione, da una distanza siderale.
Questo sguardo di compatimento per le passioni degli uomini chiude dunque il movimento narrativo che si era propagato dal canto precedente. Ma anche il cuore del nuovo canto si lega strettamente al discorso di san Tommaso nel canto X. Infatti san Tommaso introduce l’elogio di san Francesco, che occupa il centro di questo canto, apparentemente solo per spiegare un’espressione un po’ enigmatica da lui usata nel canto precedente: u’ ben s’impingua se non si vaneggia.
Incastonato in questa trama ragionativa, l’elogio del santo d’Assisi occupa, in realtà, breve spazio: settantaquattro versi (dal 43 al 117) su un canto che ne conta centotrentanove; appena più della metà.
Sono però terzine di memorabile concentrazione: anche perché san Tommaso, per celebrare la santa vita di Francesco, compie una scelta radicale, che gli permette una straordinaria forza di sintesi.
San Tommaso, o meglio Dante, quando detta questi versi ha già dietro di sé una varia, ricca e seducente leggenda francescana. Non soltanto gli scritti del santo, ma le memorie dei seguaci e le amplificazioni fantasiose degli agiografi hanno già dato vita a una vera e propria letteratura francescana, che ha già radicato fermamente il poverello d’Assisi nella immaginazione della cristianità. Ad Assisi Giotto e la sua scuola hanno affrescato, nella basilica superiore, un ciclo pittorico sulla vita di Francesco, che rappresenta un capitolo cruciale della nuova arte italiana. Tuttavia il san Francesco di Dante non è né il tenero animalista che predica agli uccelli, né il poeta incantato davanti alla creazione del Cantico delle creature, né l’asceta del bacio al lebbroso e della beatitudine trovata nell’annullamento di sé.

Dante punta dritto a una sola dimensione dell’esistenza di Francesco: la povertà.

In questo senso egli dimostra anche un formidabile intuito storico e ideologico, cogliendo benissimo il cuore della riforma francescana: costruire un movimento che riportasse dentro la Chiesa, e quindi dentro una ortodossia riconosciuta e legittimata, il pauperismo che, in tante forme diverse, e spesso eretiche o eterodosse, ribolliva in seno alla cristianità del Duecento.
Questa intuizione Dante la cala in una invenzione retorica che governa tutto il discorso di san Tommaso. Egli infatti ci rappresenta la vita di san Francesco come un lungo romanzo d’amore con una donna, che è la Povertà.
Questo è lo schermo, e insieme il mezzo metaforico, attraverso cui passa la rappresentazione della biografia del santo: dal suo distacco giovanile dalla facoltosa famiglia d’origine (visto come la scelta di corteggiare una donna sgradita alla famiglia), alla sua scelta radicale e pubblica della povertà (vista come uno sposalizio solenne con madonna Povertà), ai primi passi dell’ordine (rappresentati come il radunarsi di una corte di devoti intorno al proprio signore e alla sua dama).
E anche quando si passa a toccare succintamente gli altri appuntamenti obbligati della vita del santo, la compagnia della sposa di Francesco viene sempre sottolineata, come se si stesse descrivendo il procedere di una vita coniugale di perfetta felicità e di perfetto, reciproco amore.
Finchè anche la morte di Francesco, che volle, nelle sue ultime ore, essere posato nudo sulla nuda terra, è letta come un voler prendere congedo dal mondo nel grembo della donna amata: un voler morire tra le sue braccia, come alla conclusione di un grande romanzo d’amore.
Questo Francesco, dunque, non è quello mite, tenerissimo che la devozione popolare ci ha tramandato.  È invece un combattente, un cavaliere sempre in lotta per la sua dama, un Lancillotto cristiano. È un san Francesco di grande originalità, duro, scabro, essenziale: e non è detto che sia, per questo, meno vicino a quello vero.


mercoledì 28 ottobre 2020

Le Operette Morali di Leopardi

 Costituiscono una sorta di cerniera tra i piccoli idilli e i grandi Canti pisano-recanatesi.










x

L’opera segna il passaggio dal concetto di Natura-madre a quella di Natura-matrigna e costituisce una tappa fondamentale del tragitto di maturazione che porta Leopardi al cosiddetto pessimismo cosmico.

Le Operette sono osteggiate dalla censura e incontrano resistenza anche presso gli intellettuali e il pubblico, sia per l’incompatibilità della filosofia leopardiana con le posizioni risorgimentali progressiste e cattolico-liberali, sia perché esse danno vita a un genere nuovo, originale quanto difficile.

La prosa scientifica e filosofica non ha una consolidata tradizione in Italia, se si eccettuano gli scritti degli scienziati del Seicento, come Galilei. Per attuare il suo progetto Leopardi deve creare una lingua in cui l’efficacia dimostrativa sia unita alla fluidità e all’armonia, il rigore argomentativo non rinunci al fascino dell’immaginazione. Leopardi rifiuta sia la soluzione purista, sia lo stile aulico-accademico; inoltre è fortemente critico nei confronti della lingua francese che, condizionata dallo stile della clartè (chiarezza) cartesiana, non lascia spazio all’immaginazione e all’emozione. Crea allora uno stile mescolato, una sorta di prosa poetica di assoluta originalità.

Le Operette morali, al di là di tutti gli elementi di varietà contenutistica e formale, rivendicano una propria coerente trama di pensiero, fondata su quella che Leopardi stesso definisce la dimensione metafisica dell’opera: ovvero sul suo progetto di investigazione delle radici profonde e universali del disagio dell’uomo. 

Nella forma definitiva, le 24 operette si possono considerare divise in due parti, ambedue introdotte da un’operetta con funzione proemiale: la Storia del genere umano per la prima parte e il Parini o della gloria per la seconda.

Le due parti constano ciascuna di 12 operette. Se si considera che la prima operetta prende spunto dalla creazione del genere umano e che l’ultima, il Tristano, è dedicata all’età presente, il libro risulta iniziare dalla preistoria del mondo e concludersi con l’attualità, configurandosi perciò come una riflessione complessiva sulla storia dell’uomo dalle sue lontane origini alla contemporaneità.

I principali fili tematici delle Operette si possono così riassumere: 

OPERETTA PROEMIO: Storia del genere umano. Illustra le origini dell’uomo e l’evoluzione storica dell’umanità, che sono simili al decorso della vita umana (secondo la teoria di G. B. Vico): alla fanciullezza, epoca delle illusioni e della speranza, seguono l’età adulta e virile, caratterizzata dalla fine delle speranze e dal tedio, e la vecchiaia, età del declino senile, in cui la noia si trasforma in odio della vita e può condurre l’uomo al suicidio. La storia dell’umanità, dunque, è la storia stessa dell’infelicità umana ovvero la ricerca continua quanto vana di felicità.

FELICITA’ E INFELICITA’: autentico tema-perno delle Operette.

Nel Dialogo di Malambruno e Farfarello si affronta il concetto dell’infelicità “necessaria”, cioè connaturata agli esseri umani, sulla base di considerazioni che riprendono la “teoria del piacere”. Fra la smisurata richiesta di felicità da parte dell’uomo e l’inconsistenza del bene realmente conseguibile c’è una sproporzione incolmabile, che induce un senso di frustrazione e di nullità. 

Nel Dialogo della Natura e di un’anima l’infelicità è posta in relazione alla grandezza d’animo. Quanto più un animo è grande, tanto più è infelice.

Nel Dialogo della terra e della luna, il tema dell’infelicità si allarga su un piano universale. Sofferenza e mali sono di proporzioni cosmiche ed esistono anche sulla luna. Neppure nell’infelicità, dunque, l’uomo ha una posizione di rilievo nell’universo. Quali che siano le forme di vita, la sostanza dell’esistenza è per ogni creatura l’infelicità.

Il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare e il Dialogo della Natura e di un islandese affrontano il problema del nesso esistenza-felicità rispettivamente dal punto di vista dell’uomo di genio e dell’uomo comune. In particolare il secondo rappresenta la svolta decisiva verso quello che è stato definito il “pessimismo cosmico” di Leopardi e verso l’idea che lo sostiene della natura “nemica” e “matrigna” alle cui leggi inesorabili è impossibile sfuggire.

Nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez l’impresa di Colombo è rivisitata in quanto modello di viaggio e ricerca dell’ignoto come mezzi per affrancarsi dalla noia. Il viaggio e la ricerca, per quanto angoscianti e pieni di rischi, sono comunque fatti di attesa e, perciò, sono lo spazio della speranza e della gioventù. Il dialogo anticipa, dunque, per un verso, il tema del “piacer figlio d’affanno” de “La quiete dopo la tempesta” e, per l’altro, il tema dell’attesa de “Il sabato del villaggio”.

Nell’Elogio degli uccelli è fatto un elogio della spontaneità, dell’immaginazione, della fanciullezza, e, dunque, in sintesi, della poesia come forma di liberazione dalla noia esistenziale. Gli uccelli sommano l’esperienza del viaggio a quella della solitudine e della frequentazione dei luoghi alti; essi sono, dunque, simili ai poeti e si differenziano dagli uomini comuni, il cui stato è dolore e noia, sia per il continuo movimento, che li rende non soggetti a noia, sia per avere l’udito e la vista assai sviluppati, il che consente loro una grande capacità immaginativa.

LA CRITICA ANTROPOCENTRICA: I Dialoghi 4, 5 e 9 sono incentrati sulla critica dell’antropocentrismo da tre diverse angolature: storico-sociale, filosofico e mitologico. Nelle  Proposte di premi fatte dall’Accademia dei Sillografi una congrega di fanatici assertori del progresso, ironica invenzione di Leopardi, decide di istituire tre premi per gli inventori di macchine artificiali a vapore capaci di riprodurre l’amico fedele, l’uomo virtuoso e la donna ideale. Il folle progetto di ridurre a macchine le virtù e la figura umana ideali significa, ovviamente, la completa sfiducia nell’uomo contemporaneo e la denuncia della sua arrogante pretesa di centralità e dominio sul mondo.

Nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo si immagina l’estinzione per autodistruzione del genere umano: evento che passa del tutto inosservato agli occhi del cosmo, per il quale la presenza degli uomini è assolutamente irrilevante. L’universo non vive in funzione dell’uomo, ma in obbedienza al meccanismo di produzione-distruzione e alla legge della casualità. 

Ne La scommessa di Prometeo, Prometeo è irritato per non essere stato insignito della corona d’alloro per la sua invenzione: l’uomo. Gli dei scendono allora sulla terra per verificare la fondatezza delle pretese di Prometeo, ma riscontrano comportamenti umani tutt’altro che esemplari: la pratica dell’antropofagia nel nuovo mondo (Americhe), riti funebri assolutamente incivili nel mondo vecchio (Asia), il tedio della vita e il suicidio nel mondo civile (l’Occidente). L’operetta afferma la negatività in sé della natura umana, indipendentemente sia dal grado di civiltà, come vogliono i fautori del progresso, sia dalla vicinanza o meno allo stato di natura, come vuole Rousseau.

IL TEMA DELLA MORTE: La morte come destino ultimo del mondo compare ne Il cantico del gallo silvestre. Il “Cantico” è un testo orientale in caratteri ebraici che Leopardi finge di tradurre. Un gallo risveglia ogni mattina gli uomini dal sonno e li invita a intraprendere positivamente le attività quotidiane. Ma gli uomini sono presto rattristati dal senso di infelicità che contraddistingue la loro vita che, proprio come ogni singola giornata, inizia nella speranza e tramonta nel dolore e nella morte.

Nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sua mummie la morte è rappresentata come una liberazione dai mali e dagli affanni. Morire è come addormentarsi. Ruysch è un medico olandese del XVII secolo che ha scoperto un nuovo procedimento di mummificazione dei cadaveri. Leopardi immagina che le mummie conservate nel suo studio, a un certo momento, si risveglino, cantino un inno alla morte e conversino per quindici minuti con lui. Ruysch rivolge tre domande alle sue mummie: a) cosa si provi in punto di morte b) che tipo di dolore dà la morte c) che cos’è la morte. Le mummie rispondono che a) la morte è come un passaggio dalla veglia al sonno b) la morte non dà dolore in quanto assenza di sensazioni c) la morte, come il sonno, è apportatrice di ristoro. Il dialogo riflette un rovesciamento di tipo carnevalesco, dal momento che la riflessione sulla vita avviene dal punto di vista dei morti. 

Nel Dialogo di Plotino e di Porfirio si tratta del suicidio. In linea teorica esso è una soluzione plausibile alla condizione di dolore e noia di cui è fatta l’esistenza; ma, sul piano morale, è una scelta da evitare in nome del vincolo di solidarietà, pietà e condivisione della sofferenza che deve legare tutti gli uomini (il tema sarà ripreso ne “La ginestra”). Inoltre il suicidio rappresenterebbe una indiretta ammissione del valore della vita che, invece, non è valore per cui valga la pena di morire.

domenica 18 ottobre 2020

Visti da vicino: Giacomo Leopardi

"Cara Pilla (la sorella Paolina), il ritratto è bruttissimo: nondimeno fatelo girare così, acciocché i Recanatesi vedano con gli occhi del corpo (che sono i soli che hanno) che il gobbo de Leopardi è contato per qualche cosa nel mondo, dove Recanati non è conosciuto pur di nome".

Chissà perché Leopardi disprezzava tanto questo ritratto fatto a matita dal pittore Luigi Lolli e per volontà dell'editore per cui a Bologna stava lavorando a una edizione completa delle sue opere scritte fino al 1826. Eppure è un ritratto importante, perché è l'unico tra quelli eseguiti quando il poeta era ancora in vita e da cui derivano i successivi.
In uno dei suoi Ricordi, Leopardi allude a un altro ritratto di se stesso bambino, andato perduto, a cui teneva di più e che gli faceva provare tenerezza per il malinconico volto infantile, in particolare per l'espressione degli occhi che avevano "un non so che di sospiroso e di serio".
Anche nel ritratto odiato, però, pare che lo sguardo non abbia perduto la sua intensità.
"Una persona grande non può mai avere occhi insignificanti" (Zib.)
Questa era la funzione che Leopardi assegnava agli occhi nella fisionomia di un volto: rappresentare il significato irripetibile di una persona, il segno vivo della sua bellezza interiore.




sabato 10 ottobre 2020

DANTE, Paradiso, canto 1 (guida alla lettura e alla comprensione)





  1. In che senso il proemio del Paradiso “supera” i proemi delle precedenti due cantiche?
  2. Perché si può dire che il Paradiso si apre su una professione di umiltà?
  3. Chiarisci che cosa chiede Dante ad Apollo e perché è certo che il dio accoglierà la sua richiesta.
  4. Descrivi lo scenario con cui si apre la terza cantica e le sensazioni che prova il poeta.

Mezzogiorno…
  1. Spiega in che modo Dante ci indica la cronologia dell’ascesa al Paradiso
  2. Dove si trovano, forse, Dante e Beatrice all’inizio di questa cantica?

Dante “trasumanato”
  1. Spiega il neologismo “trasumanar” al v. 70.
  2. Dante “trasumanato” si rivolge direttamente a Dio. Con quali parole?

Beatrice spiega
  1. Che cosa dice Beatrice al poeta riguardo alla luce e alla musica dei cieli?
  2. Qual è il secondo dubbio di Dante?
  3. Analizza il nuovo ruolo di Beatrice nel Paradiso rispetto alla figura di Beatrice nella Vita Nova.

L’ordine dell’universo e la libertà dell’uomo

  1. Qual è la legge che regola tutto l’universo?
  2. Indica gli esempi che Beatrice riporta.
  3. Che rapporto esiste tra la “teoria dell’istinto” e quella del “libero arbitrio”?
  4. Nella spiegazione che Beatrice dà dell’ordine dell’universo si mescolano fisica e metafisica. Spiega questa affermazione alla luce della lettura intera del canto.

giovedì 20 febbraio 2020

Le regole del bello scrivere - da Umberto Eco

1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.
2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.
3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.
4. Esprimiti siccome ti nutri.
5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.
6.Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.
7.Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.
8.Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.
9.Non generalizzare mai.
10.Le parole straniere non fanno affatto bon ton.
11.Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu.”
12.I paragoni sono come le frasi fatte.
13.Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
14.Solo gli stronzi usano parole volgari.
15.Sii sempre più o meno specifico.
16.L’iperbole è la più straordinaria delle tecniche espressive.
17.Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
18.Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
19.Metti, le virgole, al posto giusto.
20.Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.
21.Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso.
22.Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.
23.C’è davvero bisogno di domande retoriche?
24.Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe — o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento — affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.
25.Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.
26.Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.
27.Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!
28.Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.
29.Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.
30.Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.
31.All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).
32.Cura puntiliosamente l’ortograffia.
33.Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.
34.Non andare troppo sovente a capo.
Almeno, non quando non serve.

35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.
36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.
37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.
38. Non indulgere ad arcaismi, hapax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differenza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.
39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.
40. Una frase compiuta deve avere.
(tratto da: Umberto Eco, La Bustina di Minerva)

lunedì 20 gennaio 2020

Giuseppe Parini, "La salubrità dell'aria"



1. L’alternanza campagna-città. 
Parini alterna la descrizione di luoghi e scorci di vita della campagna e della città, per poi terminare con una dichiarazione di poetica. 
Rifletti sulla struttura della lirica e completa la tabella, assegnando a ciascuna delle parti un titolo. 
vv. 1-24 
vv. 25-42 
vv. 43-66 
vv. 67-120 
vv. 121-132 

2. Contadini e cittadini. 
Campagna e città si distinguono non solo per la qualità dell’aria, ma anche per le caratteristiche fisiche e psicologiche dei suoi abitanti. 

3. L’accusa all'amministrazione cittadina. 
Quale rimprovero lancia il poeta nei confronti degli amministratori cittadini? 
Per quale ragione sono anch’essi considerati responsabili dell’inquinamento atmosferico? 

4. Il ruolo del poeta. 
Per quale motivo possiamo affermare che, per quanto riguarda il ruolo del poeta, Parini ripropone un modello tradizionale, lontano da quello di cui si facevano portavoce gli illuministi lombardi? Rispondi con riferimenti al testo. 

5. L’influenza del sensismo. 
Individua i versi in cui appare più evidente l’influenza delle teorie sensistiche e spiega la ragione della tua scelta. 

6. Dichiarazione di poetica. 
Sofferma la tua attenzione sui versi dell’ultima strofa•: qual è il messaggio e quale funzione Parini attribuisce alla poesia? 

7. L’originalità dello stile. 
Lo stile unisce eleganza classicheggiante e concretezza realistica. 
Individua, anche con l’aiuto delle note, esempi di figure retoriche, termini aulici, mitologici, scientifici, quotidiani. Poi spiega quale significato conferiscono alla rappresentazione della campagna e della città. 

8. Articolo di giornale. 
Scrivi un articolo di giornale su «La difesa dell’ambiente.

martedì 14 gennaio 2020

Educazione all'ascolto - Da un lettera di Simone Weil a Joe Bousquet

Il passo in lettura è tratto da una lettera di Simone Weil scritta a Joe Bousquet nel 1942, un anno prima di morire. Essa tratta del tema dell'attenzione intesa come cura per l’altro. Si riferisce più esattamente alla cura di un altro essere umanoall’ascolto di lui/lei – e quindi alla fratellanza – che in qualche caso autentico può portare all’aiuto risolutivo, cioè ad un intervento di  guarigione. 
Mi ha profondamente commossa constatare che ha dedicato una viva attenzione alle poche pagine che le ho mostrato.
Non ne traggo la conclusione che meritino attenzione. Considero tale attenzione come un dono gratuito e generoso da parte sua. L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. Fin dalla mia infanzia non desidero altro che averne ricevuto, prima di morire, la piena rivelazione. Mi sembra che lei sia orientato verso questa scoperta. In effetti, ritengo di non aver conosciuto, da quando sono giunta in questa regione, nessuno il cui destino non sia di gran lunga inferiore al suo; tranne un’eccezione. (L’eccezione, lo dico di sfuggita, è un domenicano di Marsiglia quasi completamente cieco, di nome padre Perrin. Deve essere stato nominato da poco, credo, priore in un convento di Montpellier; se capitasse a Carcassonne, ritengo che varrebbe la pena di organizzare un incontro tra voi.)
La scoperta che le dicevo è in fondo il soggetto della storia del Graal. Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: «Qual è dunque il tuo tormento? ». E non gli è data nascendo. Deve passare per anni di notte oscura in cui vaga nella sventura, nella lontananza da tutto quello che ama e con la consapevolezza della propria maledizione. Ma alla fine riceve la facoltà di rivolgere una simile domanda, nel medesimo istante ottiene la pietra di vita e guarisce la sofferenza altrui.
E questo, ai miei occhi, l’unico fondamento legittimo di ogni morale; le cattive azioni sono quelle che velano la realtà delle cose e degli esseri oppure quelle che assolutamente non commetteremmo mai se sapessimo veramente che le cose e gli esseri esistono. Reciprocamente, la piena cognizione che le cose e gli esseri sono reali implica la perfezione. Ma anche infinitamente lontani dalla perfezione possiamo, purché si sia orientati verso di essa, avere il presentimento di questa cognizione; ed è cosa rarissima. Non v’è altra autentica grandezza. Parlo di tutto questo non propriamente come un cieco, ma come un quasi cieco potrebbe parlare della luce. Almeno penso di vedere abbastanza per avere potuto riconoscere in voi questo orientamento.
E un regno in cui opera il semplice desiderio, purché autentico, non la volontà; in cui il semplice orientamento fa avanzare, a patto che si resti sempre rivolti verso lo stesso punto. Tre volte felice colui che è stato posto una volta nella direzione giusta. Gli altri si agitano nel sonno. Colui che procede nella giusta direzione è libero da ogni male. Benché sia, più di chiunque altro, sensibile alla sventura, benché la sventura gli procuri soprattutto un sentimento di colpa e di maledizione, tuttavia per lui la sventura non costituisce un male. A meno che non tradisca e non distolga lo sguardo, sarà sempre preservato. Anche quando si sente completamente abbandonato da Dio e dagli uomini, è comunque preservato da ogni male. Per aver parte a questo privilegio basta desiderarlo. E’ proprio questo desiderio a essere cosa estremamente difficile e rara. La maggior parte di coloro che sono convinti di averlo, non l’hanno.
Tutta la parte mediocre dell’anima si rivolta e vuole soffocare il desiderio da cui si sente minacciata di morte, e riesce il più delle volte a raggiungere il suo scopo attraverso qualche menzogna. Allora si sente al sicuro. Gli sforzi, la tensione della volontà non la turbano. Si sente unicamente minacciata dalla presenza nell’anima di un punto di desiderio puro. Quanto prima le manderò la copia di alcuni versi di Eschilo e di Sofocle con il mio tentativo di traduzione. Anche un Nuovo Testamento in greco. Mi rimprovero di non averle detto una cosa a Carcassonne. Questa. Poiché lei ha bisogno di far venire un farmaco da Marsiglia, se in qualche modo posso esserle utile, disponga di me. Non tema di causarmi disturbo, se sarà necessario.
Creda alla mia amicizia.

mercoledì 8 gennaio 2020

P. P. Pasolini, Il valore della sconfitta

Il valore della sconfitta



“Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo.
In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare…. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. E’ un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco.
Ma io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù…” 

sabato 4 gennaio 2020

Il compito dell'intellettuale secondo Albert Camus



Ricevendo il premio di cui la vostra libera Accademia ha voluto onorarmi, la mia grande gratitudine era tanto più profonda quanto più mi misuravo fino a qual punto la ricompensa oltrepassava i miei meriti personali. Ogni uomo, e a maggior ragione ogni artista, desidera ottenere dei riconoscimenti. Anch’io lo desidero, ma non mi è stato possibile apprendere la vostra decisione senza confrontare la sua grande rinomanza con quello che io realmente sono, un uomo quasi giovane, ricco soltanto dei suoi dubbi e di una opera ancora in cantiere, abituato a vivere nella solitudine del lavoro o nel rifugio dell’amicizia, come potrebbe non apprendere con una specie di panico una decisione che lo porta d’un colpo, solo e quasi ridotto a se stesso, al centro di una luce sfolgorante? Con quale animo poteva ricevere quest’onore nell’ora in cui in Europa altri scrittori, fra i più grandi, sono ridotti al silenzio e nel momento stesso in cui la sua terra natale è tormentata da una continua sventura?
Ho conosciuto questo smarrimento e questo turbamento interiore. Per ritrovare la pace insomma ho dovuto rimettermi in regola con una sorte troppo generosa. E poiché non potevo farlo facendo leva sui miei soli meriti ho trovato, come aiuto, ciò che mi ha sostenuto nelle circostanze più difficili durante la mia vita: l’idea che mi son creata della mia arte e della missione dello scrittore. Lasciate che in un sentimento di riconoscenza e di amicizia vi dica, con la massima semplicità, quale sia questa idea.
Personalmente non potrei vivere senza la mia arte, ma non l’ho mai posta al di sopra di tutto: se mi è necessaria, è invece perché non si estranea da nessuno e mi permette di vivere come sono al livello di tutti. L’arte non è ai miei occhi gioia solitaria: è invece un mezzo per commuovere il maggior numero di uomini offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie di tutti. L’arte obbliga dunque l’artista a non isolarsi e lo sottomette alla verità più umile e più universale. E spesso chi ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso dagli altri si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte e questo suo esser diverso solo confessando la sua somiglianza con tutti: l’artista si forma in questo rapporto perpetuo fra lui e gli altri, a mezza strada fra la bellezza di cui non può fare a meno e la comunità dalla quale non si può staccare. È per questa ragione che i veri artisti non disprezzano nulla e si sforzano di comprendere invece di giudicare: e se essi hanno un partito da prendere in questo mondo, non può essere altro che quello di una società in cui, secondo il gran motto di Nietzsche, non regnerà più il giudice, ma il creatore, sia esso lavoratore o intellettuale.
La missione dello scrittore è fatta ad un tempo di difficili doveri; per definizione, non può mettersi oggi al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono. O, in caso contrario, lo scrittore si ritrova solo e privo della sua arte. Tutti gli eserciti della tirannia con i loro milioni di uomini non lo strapperanno alla solitudine anche e soprattutto se si adatterà a tenere il loro passo. Ma il silenzio di un prigioniero sconosciuto ed umiliato all’altro capo del mondo sarà sufficiente a trarre lo scrittore dal suo esilio, ogni volta, almeno, che arriverà, pur nei privilegi della libertà, a non dimenticare questo silenzio e a divulgarlo con i mezzi dell’arte.
Nessuno di noi è abbastanza grande per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della sua vita, ignorato o provvisoriamente celebre, imprigionato nella stretta della tirannia o per il momento libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che fanno la grandezza della sua missione: essere al servizio della verità e della libertà. Poiché la sua vocazione è quella di riunire il maggior numero possibile di uomini, egli non può valersi della menzogna e della schiavitù che, là dove regnano, fanno proliferare la solitudine. Qualunque siano le nostre debolezze personali, la nobiltà del nostro mestiere avrà sempre le sue radici in due difficili impegni: il rifiuto della menzogna e la resistenza all’oppressione.
Per più di vent’anni di storia folle, perduto e privo di soccorso, come tutti gli uomini della mia età, nelle convulsioni del tempo, sono stato sorretto dal sentimento oscuro che scrivere era oggi un onore, perché questo atto impegnava, e non impegnava a scrivere soltanto. Mi obbligava in particolare a portare, come potevo e secondo le mie forze, con tutti quelli che vivevano la stessa storia, la sventura e la speranza di cui eravamo partecipi. Questi uomini, nati all’inizio della prima guerra mondiale, che hanno avuto vent’anni quando si installavano ad un tempo il potere hitleriano e i primi processi rivoluzionari e che sono stati in seguito messi alla prova, per completare la loro educazione, nella guerra di Spagna, nella seconda guerra mondiale, nell’universo “concentrazionario”, nell’Europa della tortura e della prigione, debbono oggi allevare i loro figli e le loro opere in un mondo minacciato dalla distruzione nucleare. Nessuno, suppongo, può chieder loro di essere ottimisti. E sono convinto che dobbiamo comprendere, pur senza abbandonare la lotta contro di loro, l’errore di quelli che, per troppa disperazione, hanno rivendicato il diritto al disonore e si sono gettati a capofitto nel nichilismo del nostro tempo. Ma è anche vero che la maggior parte di noi, nel mio paese e in Europa, hanno rifiutato questo nichilismo e si sono messi alla ricerca di una legittimità; hanno dovuto costruirsi un’arte per vivere in tempi calamitosi, per nascere una seconda volta e lottare poi a viso scoperto contro l’istinto di morte sempre presente nella nostra storia.
Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga. Erede di una storia corrotta in cui si fondono le rivoluzioni fallite e le tecniche impazzite, la morte degli dei e le ideologie portate al parossismo, in cui mediocri poteri, privi ormai di ogni forza di convincimento, sono in grado oggi di distruggere tutto, in cui l’intelligenza si è prostituita fino a farsi serva dell’odio e dell’oppressione, questa generazione ha dovuto restaurare, per se stessa e per gli altri, fondandosi sulle solo negazioni, un po’ di ciò che fa la dignità di vivere e di morire. Davanti ad un mondo minacciato di disintegrazione, sul quale i nostri grandi inquisitori rischiano di stabilire per sempre il dominio della morte, la nostra generazione sa bene che dovrebbe, in una corsa pazza contro il tempo, restaurare fra le nazioni una pace che non sia quella della servitù, riconciliare di nuovo lavoro e cultura e ricreare con tutti gli uomini un’arca di alleanza. Non è certo che essa possa mai portare a buon fine questo compito immenso ma è certo che, in tutto il mondo, è già impegnata nella sua doppia scommessa di verità e di libertà e che, all’occasione, saprà morire senza odio. Per questo merita quindi di essere salutata e incoraggiata dovunque si trovi e soprattutto là dove si sacrifica. È su di essa, comunque, che, certo del vostro assenso profondo, vorrei far ricadere l’onore che mi avete fatto.
Nello stesso tempo, dopo aver proclamato la nobiltà del mestiere di scrivere, avrei ricollocato lo scrittore al suo vero posto, non godendo lui di altri titoli all’infuori di quelli che divide con i suoi compagni di lotta, vulnerabile ma ostinato, ingiusto e appassionato di giustizia, costruttore della sua opera senza vergogna né orgoglio al cospetto di tutti, diviso sempre fra il dolore e la bellezza votato infine a trarre dalla sua duplice esistenza le creazioni che ostinatamente tenta di edificare in mezzo al moto distruttore della storia. Chi, dopo tutto ciò, potrebbe attendere da lui soluzioni bell’e fatte e belle morali? La verità è misteriosa, sfuggente, sempre da conquistare. La libertà è pericolosa, dura da vivere quanto esaltante. Dobbiamo marciare verso questi due obiettivi, con fatica ma decisi, ben consci dei nostri errori in un così lungo cammino. Quale scrittore dunque oserebbe, in buona coscienza, farsi predicatore di virtù? Quanto a me devo dire una volta di più che non sono niente di tutto questo. non ho mai potuto rinunciare alla luce, alla felicità di esistere, alla vita libera in cui sono cresciuto. Ma benché questa nostalgia spieghi molti dei miei errori e delle mie colpe, essa mi ha aiutato senza dubbio a comprendere meglio il mio mestiere, mi aiuta ancor oggi a tenermi, ciecamente, vicino a tutti quegli uomini silenziosi che non sopportano nel mondo una vita che per loro è fatta soltanto del ricordo o del ritorno di brevi e libere gioie.
Ricondotto così a ciò che realmente sono, ai miei limiti, ai miei doveri, alla mia difficile fede, mi sento più libero di testimoniarvi, per finire, l’importanza e la generosità del premio che mi avete conferito; più libero di dirvi anche che vorrei riceverlo come un omaggio reso a tutti quelli che, combattendo la stessa battaglia, non ne hanno ricevuto alcun privilegio, ma hanno invece conosciuto sventura e persecuzione. Non mi resta altro che ringraziarvi dunque dal profondo del cuore e fare a voi pubblicamente, come testimonianza personale di gratitudine, la stessa vecchia promessa di fedeltà che ogni vero artista, ogni giorno, fa a se stesso, in silenzio.