Credo molto nelle potenzialità dei social network e vi sto di fatto spendendo le mie migliori energie. Sono convinta che una scuola 2.0 debba affiancare a un solido studio dei contenuti una diffusione degli stessi in un formato appetibile e soprattutto vicino alle modalità di comunicazione degli studenti, che di certo al giorno d'oggi non scrivono soltanto con carta e penna, ma ricorrono spesso alla leggerezza dei bits. Qualcosa che del resto già Calvino aveva preconizzato nelle sue Lezioni Americane.

Confrontarsi con il pubblico della comunità social, ben più vasto del microcosmo classe (e potenzialmente infinito), proponendo il proprio lavoro, significa per gli studenti sviluppare ottime doti di sintesi nell'esposizione dei contenuti e mantenere buon controllo ortografico. Non solo, essi devono imparare a scrivere in modo accattivante e spigliato, così da ottenere l'attenzione dei lettori, nonché variare il registro stilistico a seconda delle diverse situazioni comunicative.

giovedì 22 marzo 2018

IL CREPUSCOLARISMO

La poesia crepuscolare fiorì tra il 1905 e il 1915, in piena età giolittiana. 

La denominazione è dovuta al critico Giuseppe Antonio Borgese che pubblicò nel 1910 un saggio dal titolo “Poesia crepuscolare”. Vi si esaminava l’opera dei poeti Marino Moretti, Fausto Maria Martini e Carlo Chiaves. A Borgese parve che la stagione della grande poesia si fosse conclusa con la pubblicazione delle “Laudi” dannunziane e dei “Poemetti” pascoliani e che ormai la letteratura andasse spegnendosi in un mite e lunghissimo crepuscolo. Il termine incontrò fortuna e nell’ambito di questo indirizzo furono successivamente inclusi anche altri poeti tra cui Guido Gozzano, Sergio Corazzini, Corrado Govoni.

Il Crepuscolarismo pertanto non fu una vera e propria scuola poetica, ma un movimento costituito da personalità diverse e tuttavia accomunate da atteggiamenti psicologici e da orientamenti poetici. La condizione esistenziale comune ai crepuscolari fu quella caratterizzata da una certa stanchezza interiore, da una volontà di non apparire, di rimpicciolirsi e considerarsi uomini di poco conto (atteggiamento questo che porterà per esempio G. Gozzano a nominarsi in una sua lirica come “guidogozzano”, o Corazzini a dire: “Perché tu mi dici: poeta? / io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange”. 

I poeti crepuscolari espressero  una visione nostalgica del  passato; vissero il disagio dell’eclissamento dei grandi ideali dell’età risorgimentale, della perdita di entusiasmo per la fede, per la scienza e per il progresso. Distrutti pertanto gli ideali, le fedi, le ragioni dell’operare, spenta ogni facoltà di adesione piena, di impegno profondo, di partecipazione totale, rimase in loro un residuo di nostalgia, di rimpianto, che si manifestò in una rinunzia a vivere e la vita e in una volontà  di osservarla e descriverla.

Ora nella somma di questi atteggiamenti ci fu certamente anche una componente letteraria. I crepuscolari infatti si richiamavano a modelli stranieri, soprattutto ai decadenti francesi, nello stesso tempo essi intesero opporsi al dannunzianesimo imperante: furono contro il superomismo, l’attivismo, il vitalismo. 

Rifiutarono la concezione lussuriosa dell’amore, le donne fatali, il vivere inimitabile, la volontà di potenza e la vita politica attiva come la militanza partitica. Si volsero piuttosto verso un certo pascolismo di maniera, quello dei sentimenti semplici e puri, del vivere con modestia e con pochi ma sicuri affetti per cui poi cantarono  il quotidiano, l’ordinario, ciò che è semplice ed umile. I temi prediletti dalla poesia crepuscolare furono così quelli che essi chiamarono de “le buone cose di pessimo gusto”: la periferia delle città, gli ambienti di provincia, le vecchie case, i vecchi quartieri, il suono degli organetti di Barberia, le corsie di ospedale, i giardinetti pubblici un po’ trascurati, le serate domenicali trascorse nelle case borghesi con “Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone / i fiori in cornice.../ il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti / i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro / un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, / gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco...” (ancora Gozzano). 

E se la poesia dannunziana era stata dominata dalle donne fatali, lussuriose e di ineffabile bellezza, essi predilessero gli amori ancillari, le casalinghe dalle guance rosee, le donne non troppo belle, tanto che in una poesia Gozzano così scrive: “Sei quasi brutta, priva di lusinga / nelle tue vesti quasi campagnole / ma la tua faccia buona e casalinga / ma i bei capelli di color di sole / attorti in minutissime trecciuole / ti fanno un tipo di beltà fiamminga // E rivedo la tua bocca vermiglia / così larga nel ridere e nel bere / e il volto quadro senza sopracciglia / tutto sparso d’efelidi leggere / e gli occhi fermi, l’iridi sincere / azzurre d’un azzurro di stoviglie”.

Della poesia decadente essi insomma accolgono quei temi, quei motivi, quegli spunti che si prestano alla espressione dei loro particolari contenuti, quotidiani e dimessi, della loro stanchezza di vivere, della loro incapacità di entusiasmi, della loro condizione di naufraghi sballottati e travolti dall’onda nel mare della vita”.

Ora di tutti i poeti crepuscolari si possono qui considerare Guido Gozzano, come il maggiore, Moretti e Corazzini, come i più significativi tra gli altri.

In sintesi: 






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