IL TUONO (da Myricae)
E cielo e
terra si mostrò qual era:
la terra
ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.
TEMPORALE (da Myricae)
Un bubbolìo
lontano…
Rosseggia
l’orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
LA SIEPE (dai Poemetti)
I
Siepe del mio campetto,
utile e pia1,
che al campo sei come l’anello2
al dito,
che dice mia la donna che fu mia
(ch’io pur ti sono
florido3 marito,
5 o bruna terra ubbidïente, che ami
chi ti piagò col vomero brunito4...);
siepe che il passo
chiudi co’ tuoi rami
irsuti5 al ladro dormi
’l-dì6; ma dài
ricetto7 ai nidi e
pascolo8 a gli sciami;
10 siepe che rinforzai, che
ripiantai,
quando crebbe famiglia, a mano a
mano,
più lieto sempre e non più ricco
mai;
d’albaspina, marruche9
e melograno,
tra cui la madreselva10
odorerà;
15 io per te vivo libero e sovrano,
verde muraglia della mia
città11.
II
Oh! Tu sei buona! Ha
sete il passeggero;
e tu cedi i tuoi chicchi12
alla sua sete,
ma salvi13 il frutto
pendulo del pero.
Nulla fornisci alle anfore
segrete14
5 della massaia: ma per te, felice
ella i ciliegi popolosi15
miete.
Nulla tu rendi; ma la
vite dice;
quando la poto all’orlo della
strada,
che si sente il cucùlo alla pendice16,
10 dice: – Il padre tu sei che,
se t’aggrada17,
sì mi correggi e guidi per il pioppo18;
ma la siepe è la madre che mi bada.
–
– Per lei19
vino ho nel tino, olio nel coppo20 –
rispondo. I galli plaudono21
dall’aia;
15 e lieto il cane, che non è di troppo22,
ch’è la tua voce, o muta
siepe, abbaia.
III
E tu pur, siepe,
immobile al confine,
tu parli; breve parli tu, ché,
fuori,
dici un divieto23 acuto
come spine;
dentro, un assenso24
bello come fiori;
5 siepe forte ad altrui, siepe a me pia,
come la fede che donai con gli ori25,
che dice mia la donna
che fu mia.
NEBBIA (dai Canti di Castelvecchio)
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
Ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch'ami e che vada!
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
La grande proletaria si è mossa. Discorso di
Giovanni Pascoli in esaltazione dell'impresa di Libia
Tra i tanti scritti e discorsi a sostegno della conquista
libica scegliamo questo del poeta Giovanni Pascoli, La grande Proletaria si è mossa. Non può certo sorprendere che un
poeta nazionalista e attento alle mode come D'Annunzio abbia inneggiato alla
guerra di Libia (con le cosiddette canzoni pubblicate sul «Corriere della Sera»
nell'ottobre-dicembre 1911); ma che anche un poeta della natura, del dolore e
dei sentimenti più semplici e umani come Pascoli abbia sentito il bisogno di
esaltare il nuovo colonialismo italiano, dà la misura dell'ubriacatura
nazionalista che percorse l'Italia nell'autunno 1911.
Nel discorso di Pascoli ricorrono tutti i temi più mistificanti della
propaganda coloniale: dalla fertilità delle regioni libiche alle aquile di
Roma, dal nuovo sbocco offerto all'emigrazione al superamento della lotta di
classe, dall'esaltazione dell'esercito e della marina al disprezzo per l'arabo,
il tutto unificato da un dilagare di retorica senza freni. Sara poi ripreso dal
fascismo il tema centrale, ossia la giusta e vittoriosa lotta dell'Italia,
nazione proletaria sempre oltraggiata e misconosciuta, contro le nazioni più
ricche per la conquista di una nuova potenza e di un «posto al sole».
Da "Il colonialismo italiano" La guerra di Libia
È il discorso che Pascoli tenne al
Teatro comunale di Barga il 21 novembre 1911, pubblicato su «La Tribuna»
del 27 novembre 1911, e nel
quale espresse la sua entusiastica adesione all’impresa libica. Questo brano
non è solo importante per capire l’ideologia del Pascoli ma anche per
comprendere l’ideologia degli intellettuali del tempo. La guerra in Libia e la
polemica che avvenne in Italia prima dell’intervento (1910) sono considerate
dagli storici come una premessa del coinvolgimento italiano nella prima guerra
mondiale. Il Pascoli, che si dichiarò sempre simpatizzante socialista, in
questo brano dimostra di non esserlo affatto. La giustificazione
dell’intervento militare (“non si può fare altrimenti”) trova fondamento nel
fatto che i proletari italiani non dovranno più emigrare in massa in tutto il
mondo, in cerca di migliori condizioni di vita, ma andando in Libia, si
sentiranno come in Patria a tutti gli effetti (il socialismo in realtà
ripudiava le guerre di conquista, accettando solo quelle di difesa). In questo
brano Pascoli, riferendosi alla grandezza dell’antico Impero Romano, non tiene
conto della giusta autodeterminazione dei popoli libici, e i toni un po’
razzisti di questo brano anticipano quelli più dichiarati e marcati degli
interventisti e di D’Annunzio.
La grande proletaria si è mossa.
Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e
dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a
tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar
carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere
edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare
tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò
più difficile ancora: ad aprire vie nell'inaccessibile, a costruire città, dove
era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto;
e a pulire scarpe al canto della strada.
Il mondo li aveva presi a opra, i lavoratori d'Italia; e più ne aveva bisogno,
meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava.
Diceva Carcamanos! Gringos! Cincali! Degos!
Erano diventati un po' come i negri, in America, questi connazionali di colui
che la scoprì; e come i negri ogni tanto erano messi fuori della legge e della
umanità, si linciavano.
Lontani o vicini alla loro patria, alla patria nobilissima su tutte le altre,
che aveva dato i più potenti conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più
profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più
benefici indagatori, scopritori, inventori, del mondo, lontani o vicini che
fossero, queste opre erano costrette a mutar patria, a rinnegare la nazione, a
non essere più d'Italia.
Era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Si, come Dante, a dir Terra,
come Colombo, a dir Avanti! come Garibaldi.
Si diceva: - Dante? Ma voi siete un popolo d'analfabeti! Colombo? Ma la vostra
è l'onorata società della camorra e della mano nera! Garibaldi? Ma il vostro
esercito s'è fatto vincere e annientare da africani scalzi! Viva Menelik!
I miracoli del nostro Risorgimento non erano più ricordati, o, appunto,
ricordati come miracoli di fortuna e d'astuzia. Non erano più i vincitori di
San Martino e di Calatafimi, gl'italiani: erano i vinti di Abba-Garima. Non
avevano essi mai impugnato il fucile, puntata la lancia, rotata la sciabola:
non sapevano maneggiare che il coltello.
Così queste opre tornavano in patria poveri come prima e peggio contenti di
prima, o si perdevano oscuramente nei gorghi delle altre nazionalità.
Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta regione bagnata
dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole
isole nostre; verso la quale si protende impaziente la nostra isola grande; una
vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d'acque e
di messi, e verdeggiante d'alberi e giardini; e ora, da un pezzo, per l'inerzia
di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un deserto.
Là i lavoratori saranno, non l'opre, mal pagate mal pregiate mal nomate, degli
stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle parole, agricoltori sul suo,
sul terreno della patria; non dovranno, il nome della patria, a forza,
abiurarlo, ma apriranno vie, colteranno terre, deriveranno acque, costruiranno
case, faranno porti, sempre vedendo in alto agitato dall'immenso palpito del
mare nostro il nostro tricolore.
E non saranno rifiutati, come merce avariata, al primo approdo; e non saranno
espulsi, come masnadieri, alla prima loro protesta; e non saranno, al primo
fallo d'un di loro, braccheggiati inseguiti accoppati tutti, come bestie
feroci.
Veglieranno su loro le leggi alle quali diedero il loro voto. Vivranno liberi e
sereni su quella terra che sarà una continuazione della terra nativa, con
frapposta la strada vicinale del mare. Troveranno, come in patria, ogni tratto
le vestigia dei grandi antenati.
Anche là è Roma.
E Rumi saranno chiamati. Il che sia augurio buono e promessa certa. SI: Romani.
SI: fare e soffrire da forti. E sopra tutto ai popoli che non usano se non la
forza, imporre, come non si può fare altrimenti, mediante la guerra, la pace.
- Ma che? - Il mondo guarda attonito o nasconde sotto il ghigno beffardo la sua
meraviglia. - La Nazione proletaria, la nostra fornitrice di braccia a prezzi
ridotti, non aveva se non il piccone, la vanga e la carriola. Queste le sue
arti, queste le armi sue: le armi, per lo meno, che sole sa maneggiare, oltre
il coltello col quale partisce il pane e si fa ragione sulle risse. Si diceva
bensì che era una potenza; e invero aveva avuto un cotal risveglio che ella
chiama risorgimento. Qual risorgimento? Dalla vittoria d'un benefico popolo
alleato aveva ottenuto Milano; da quella d'un altro, Venezia. In un momento che
questi due alleati si battevano fieramente tra loro, ella aveva ghermito Roma.
Così la nazione era risorta. E risorta, volendo dar prova di sè, era stata
vinta da popoli neri e semineri E ora ... -
Ecco quel che è accaduto or ora e accade ora.
Ora l'Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant'anni ch'ella
rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte
all'umanamento e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere
soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai
suoi figli volenterosi quel che sol vogliono, lavoro; al suo solenne impegno
coi secoli augusti delle sue due Istorie, di non esser da meno nella sua terza
era di quel che fosse nelle due prime; si è presentata possente e serena,
pronta e rapida, umana e forte, per mare per terra e per cielo.
Nessun'altra nazione, delle più ricche, delle più grandi, è mai riuscita a
compiere un simile sforzo. Che dico sforzo? Tutto è sembrato così agevole,
senza urto e senza attrito di sorta! Una lunghissima costa era in pochi giorni,
nei suoi punti principali, saldamente occupata. Due eserciti vi campeggiano in
armi. O Tripoli, o Beronike, o Leptis Magna (non hanno diritto di porre il nome
quelli che hanno disertato o distrutta la casa!), voi rivedete, dopo tanti
secoli, i coloni dorici e le legioni romane!
Guardate in alto: vi sono anche le aquile!
Un altro popolo ai nostri giorni si rivelò a un tratto così. Dopo non molti
anni che si veniva trasformando in silenzio, eccolo mettere per primo in azione
tutte le moderne invenzioni e scoperte, le immense navi, i mostruosi cannoni,
le mine e i siluri, la breve vanga delle trincee, e il tuo invisibile spirito,
o Guglielmo Marconi, che scrive coi guizzi del fulmine; tutti i portati della
nuova scienza e tutto il suo antico eroismo; e coi suoi soldatini ...
O non sono chiamati soldatini anche i classiarii e i legionari d'Italia? Non ha
l'Italia nuova in questa sua prima grande guerra messo in opera tutti gli
ardimenti scientifici e tutta la sua antica storia? Non ha per prima battuto le
ali e piovuto la morte sugli accampamenti nemici? Non ha, a non grande distanza
dal promontorio Pulcro, rinnovato gli sbarchi di Roma? Non si è già trincerata
inespugnabilmente, secondo l'arte militare dei progenitori, con fossa e vallo;
per avanzare poi sicura e irresistibile?
Eccoli là, e sono pur sempre quelli e attendono al medesimo lavoro, i
lavoratori che il mondo prendeva e prende a opra. Eccoli con la vanga in mano,
eccoli a picchiar col piccone e con la scure, i terrazzieri e braccianti per
tutto cercati e per tutto spregiati. Con la vanga scavano fosse e alzano
terrapieni, al solito. Coi picconi, al solito, demoliscono vecchie muraglie, e
con le scuri abbattono, al solito, grandi selve.
Ma non sono le solite strade, che fanno per altrui: essi aprono la via alla
marcia trionfale e redentrice d'Italia.
Fanno una trincea di guerra, sgombrano lo spazio alle artiglierie. Stanno li
sotto i rovesci d'acqua, sotto le piogge di fuoco; e cantano. La gaia canzone
d'amore e ventura è spesso l'inno funebre che cantano a se stessi, gli eroi
ventenni. Che dico eroi? Proletari, lavoratori, contadini.
Il popolo che l'Italia risorgente non trovò sempre pronto al suo appello, al
suo invito, al suo comando, è là. O cinquant'anni del miracolo! I contadini che
spesso furono riluttanti e ripugnanti, i contadini che anche lontani dal
Lombardo-Veneto chiamavano loro imperatore l'imperatore d'Austria, e ciò quando
l'imperio di Roma era nelle mani del dittatore ultimo, i contadini che
Garibaldi non trovò mai nelle sue file ... vedeteli!
È l'ora dell'insidia e del tradimento. La trincea è in qualche punto sorpassata.
I nostri sono fucilati al petto e pugnalati a tergo. Sopraggiunge al galoppo
vertiginoso una batteria appena appena sbarcata. La rivoltella in pugno, gli
occhi schizzanti fuoco, anelanti sui cavalli sferzati e spronati a sangue,
vengono ... i contadini italiani. In tre minuti i cavalli sono staccati, gli
affusti tolti, i cannoni appostati; e la tempesta di ferro e fuoco tuona
formidabilmente.
Quale e quanta trasformazione! Giova ripeterlo: cinquant'anni fa l'Italia non
aveva scuole, non aveva vie, non aveva industrie, non aveva commerci, non aveva
coscienza di se, non aveva ricordo del passato, non aveva, non dico speranza,
ma desiderio dell'avvenire. In cinquant'anni è parso che altro non si facesse
se non errori e anche delitti; non si cominciasse se non a far sempre male e
non si finisse se non col non far mai nulla. La critica era feroce e
interminabile e insaziabile. Era forse un desiderio impaziente che la animava.
Ebbene in cinquant'anni l'Italia aveva rifoggiato saldamente, duramente, immortalmente,
il suo destino.
Chi vuol conoscere quale ora ella è, guardi la sua armata e il suo esercito. Li
guardi ora in azione. Terra, mare e cielo, alpi e pianura, penisola e isole,
settentrione e mezzogiorno, vi sono perfettamente fusi. Il roseo e grave alpino
combatte vicino al bruno e snello siciliano, l'alto granatiere lombardo
s'affratella col piccolo e adusto fuciliere sardo; i bersaglieri (chi vorrà
assegnare ai bersaglieri, fiore della gioventù panitalica, una particolare
origine?), gli artiglieri della nostra madre terra piemontese dividono i rischi
e le guardie coi marinai di Genova e di Venezia, di Napoli e d'Ancona, di
Livorno, di Viareggio, di Bari. Scorrete le liste dei morti gloriosi, dei
feriti felici della loro luminosa ferita: voi avrete agio di ricordare e
ripassare la geografia di questa che appunto era tempo fa, una espressione
geografica.
E vi sono le classi e le categorie anche là : ma la lotta non v'è o è lotta a
chi giunge prima allo stendardo nemico, a chi prima lo afferra, a chi prima
muore A questo modo là il popolo lotta con la nobiltà e con la borghesia. Così
là muore, in questa lotta, l'artigiano e il campagnolo vicino al conte, al
marchese, al duca.
Non si chiami, questa, retorica. Invero né là esistono classi né qua. Ciò che
perennemente e continuamente si muta, non è. La classe che non è per un minuto
solo composta dei medesimi elementi, la classe in cui, con eterna vicenda, si
può entrare e se ne può uscire, non è mai sostanzialmente diversa da un'altra
classe. Qual lotta dunque può essere che non sia contro sè stessa?
E lottiamo, dunque, bensì; ma sia la nostra lotta come quella che si vede là,
della nostra Patria, per così dire, scelta, della nostra Patria, che vorrei
dire in piccolo, se non dovessi aggiungere: no: in grande!
Lotta d'emulazione tra fratelli, ufficiali o soldati, a chi più ami la madre
comune, che ne li rimerita con uguali gradi, premi, onori, e li avvolge morti
nello stesso tricolore.
O voi che siete la più grande, la più bella, la più benefica scuola che abbia
avuta nel cinquantennio l'Italia, armata ed esercito nostri!
Dicono che in codesta scuola s'insegna a oziare! E no: s'insegna a vigilar
sempre. S'insegna a godere! E no: s'insegna a patire. S'insegna a essere
crudeli a ogni incendio, a ogni inondazione, a ogni terremoto, a ogni peste,
accorrono questi crudeli a fare da pompieri, da navicellai, da suore di carità,
da governanti, da infermieri, da becchini. S'insegna a uccidere! S'insegna a
morire.
Questa è la scuola che, oltre aver distribuito tanto alfabeto, ci ammaestra
esemplarmente nell'umano esercizio del diritto e nell'eroico adempimento del
dovere. Essa risponde ora a quelli che confondono l'aspirazione alla pace con
la rassegnazione alla barbarie e alla servitù.
- Noi -- dicono quei nostri maestri -- che siamo l'Italia in armi, l'Italia al
rischio, l'Italia. in guerra, combattiamo e spargiamo sangue, e in prima il
nostro, non per disertare ma per coltivare, non per inselvatichire e corrompere
ma per umanare e incivilire, non per asservire ma per liberare. Il fatto nostro
non è quello dei Turchi. La nostra è dunque, checché appaiono i nostri atti
singoli di strategia e di tattica, guerra non offensiva ma difensiva. Noi
difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti
della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al
genere umano tutto, sequestrano per sè e corrono per loro, senza coltivarla,
togliendo pane, cibi, vesti, case, all'intera collettività che ne abbisogna. A
questa terra, così indegnamente sottratta al mondo, noi siamo vicini; ci fummo
già; vi lasciammo segni che nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono
a cancellare; segni della nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non
siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo. In faccia a noi questo è un
nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un dovere nostro.
Così risponde l'Italia guerreggiante ai fautori dei pacifici Turchi e della
loro benefica scimitarra; degli umani Beduini-Arabi che non usano violare e
mutilare soltanto cadaveri; degli industriosi razziatori di negri e mercanti di
schiavi.
Così risponde con un fatto di eroica e materna pietà, che ha virtù di simbolo.
Il bersagliere, di quelli fulminati di fronte e pugnalati alle spalle,
raccoglie di tra i cadaveri una bambina araba: la tiene con se nella trincea,
la nutre, la copre, l'assicura. Tuonano le artiglierie. Sono il canto della
cuna. Passano rombando le granate. La bambina è ben riparata, e le crede, chi
sa? balocchi fragorosi e luminosi. Ella è salva: crescerà italiana, la figlia
della guerra. O non è ella la barbarie, non decadente e turpe, ma vergine e
selvaggia; la barbarie nuda famelica abbandonata? E colui che la salva e la
nutre e la veste non è l'esercito nostro che ha l'armi micidiali e il cuore pio,
che reca costretto la morte e non vorrebbe portar che la vita?
O esercito calunniato! Eppur tra lo sdegno e lo schifo, nel leggere le
diffamazioni dei giornali stranieri, noi abbiamo sorriso! Chi non ha visto
qualche volta i nostri bei ragazzi armati dividere la gamella e il pan di
munizione con qualche vecchio povero? Chi non ha visto qualche volta uno dei
nostri cari fanciulloni soldati con un bambino in collo? Chi non li ha visti
accorrere a tutte le sventure, prestarsi a tutte le fatiche, affrontare tutti i
pericoli per gli altri? Ora ecco che in pochi giorni sono divenuti masnadieri
...
Sì: noi sorrideremmo se l'accusa, per quanto assurda, ma immonda, non toccasse
ciò che abbiamo di più caro e di più sacro. Hanno detto, rivolgendosi al tuo
esercito, turpi parole contro te, o pura o santa madre nostra Italia! Per
quanto elle non giungano all'orlo della tua veste, noi non possiamo perdonare,
o madre d'ogni umanità, o madre tanto forte quanto pia!
Noi ce ne ricorderemo. Ricorderemo che voi, o stranieri, avete voluto prestare
i fermenti di barbarie che forse ancora brulicano nel vostro cuore, al popolo
che con San Francesco rese più umano, se è lecito dirlo, persino Gesù Nazareno;
che coi suoi soavi artisti fece dell'inaccessibile cielo una buona tiepida raccolta
casa terrena piena d'amore; che col Beccaria abolì la tortura; che, quasi solo
nel mondo, non ha più la pena di morte; che in Garibaldi ebbe un portentoso
guerriero che odiava la guerra e preferiva la vanga alla spada e piangeva sul
nemico vinto e sceso dal trono e perdonava al suo tortòre e non faceva
distruggere un campo di grano, dove i nemici potevano nascondersi, perché il
grano era quasi maturo e vicino a divenir pane.
O santi martiri nostri, o Pellico e Oroboni, o Tazzoli e Tito Speri, che vi faceste
del duro carcere sotterraneo un tempio, e del patibolo un altare!
Ma noi sappiamo da che furono mosse le inique accuse. Da questo: l'esempio che
aveva a restar unico, del Giappone, si era, dopo poco tempo rinnovato. Le opre
de' mondo erano, a suo tempo e luogo, soldatini formidabili. La grande
Proletaria delle nazioni (laboriosa e popolosa questa dell'occidente appunto
come quell'altra dell'oriente estremo) scendeva in campo, si mostrava, per mare
per terra e per cielo, potenza tanto più forte quanto più semplice, più
lavoratrice, più avvezza a soffrire che a godere, più consapevole del suo
diritto conculcato, più ispirata dal sublime pensiero che ella, pur mo'
redenta, doveva a sua volta divenir redentrice.
Così l'Italia si è affermata e confermata. Ora è incrollabile. Può (perdonate
la bestemmia; ché in verità ella non
può!) essere ricacciata al mare, essere costretta ad abbandonare
l'impresa, essere invasa, corsa, calpestata, divisa e assoggettata ancora: ella
è e resterà, non può morir più una nazione in cui le madri raccomandano ai
figli che partono per la guerra, di farsi
onore, in cui tutti i bambini delle scuole rompono per i feriti il loro
salvadanaio, in cui (udite: è cosa accaduta in un borghetto qui presso: ai
Conti) il più povero mezzaiuolo dei dintorni, che ha un figlio nelle trincee di
Tripoli, dà ai cercatori della Patria i suoi unici due soldi: l'obolo che la
Patria ha riposto nel suo seno, vicino al suo gran cuore, come inestimabile
tesoro.
I nostri feriti non trascineranno per le vie le mutile membra e la vita
impotente. No. Saranno quello che per la madre e per i fratelli è il figlio e
fratello nato o fatto infelice. Saranno i careggiati, i meglio riguardati, i
più amati. Essi ci ricorderanno la prima ora che abbiamo avuta, dopo tanti anni,
di coscienza di noi, di gloria e vittoria, d'amore e concordia.
Non tenderanno la mano. La tenderemo noi a loro per averne una stretta che ci
faccia bene al cuore. Non picchieranno alla porta. Le apriremo noi, a due
battenti, le porte, per farli assidere al nostro focolare e alla nostra mensa,
e udirne i semplici e magnifici racconti, e consacrare la nostra casa e i
nostri figli a quella, che ci ispira ogni bene, ci tien lontani da ogni viltà,
ci accompagna sempre, e non muta mai: alla Patria a cui quando si rende, e così
volontieri, così giocondamente, così sorridenti, la vita che ci diede, ella,
ella piange.
Benedetti voi, morti per la Patria! Riunitevi, eroi gentili, nomi eccelsi,
umili nomi, ai vostri precursori meno avventurati di voi, perchè morirono per
ciò che non esisteva ancora!
Voi l'Italia già grande ha raccolti nelle braccia possenti.
Qual festa vi faranno i morti vincitori di S. Martino di Calatafimi! Il
gigantesco Schiaffino, morto impugnando la bandiera dei Mille, come accoglierà
i piccoli fucilieri dell' 84° conquistatori della bandiera del Profeta! Ma non
vi fermate troppo con loro; o bersaglieri di Homs coi bersaglieri di Palestro,
o cavalleggeri di Tripoli coi cavalleggeri di Montebello. La vittoria rende
felice anche i morti.
Andate a consolare i vinti! O Bianco, santa primizia della guerra, o Grazioli,
o De Lutti, o marinai di Tripoli e Ben-Ghazi, consolate i morti di Lissa! O
Bruchi, o Solaroli, o Granafei, o Faitini, o Flombert, o Orsi, o Bellini, o
Silvatici, o trecento caduti in un'ora, consolate i morti di Custoza!
Oh! Non dimenticate i più dolorosi, e, se si può dire, anche più valorosi,
morti di Amba Alage e Abba Garima. Sono, essi, gli ultimi martiri d'Italia:
sono ancora sulla soglia. Abbracciate il maggior Toselli così degno di guidare
un'avanzata audace su Ain-Zara! Baciate il maggior Galliano, così degno di
difendere le trincee di Bu-Meliana e Sciara-Sciat!
O capitano Pietro Verri che nel momento più periglioso guidasti al
contrattacco, fuori delle Trincee, i mozzi di sedici e diciassette anni, i
ragazzi del nostro mare, o sublime capitan Verri, tu va direttamente a Caprera,
va a narrar la cosa a Giuseppe Garibaldi. Ripeterà esso a te il tuo appello:
Garibaldini del mare! E ti ricorderà che egli aveva il suo battaglione di speranzini,
ragazzi raccolti per le strade, i quali a Velletri, divini fanciulli, lo
salvarono.
Benedetti, o morti per la Patria! Voi non sapete che cosa siete per noi e per
la Storia! Non sapete che cosa vi debba l'Italia! L'Italia, cinquant'anni or
sono, era fatta. Nel sacro cinquantennario voi avete provato, ciò che era voto
de' nostri grandi che non speravano si avesse da avverare in così breve tempo,
voi avete provato che sono fatti anche gl'italiani.
Giovanni Pascoli