Uom, di sensi, e di cor, libero nato, […] conscio a sé di se stesso, uom tal non degna l’ira esalar che pura in cor gli ferve; ma il sol suo aspetto a non servire insegna.
V. Alfieri, Rime [1795]
Sublime specchio di veraci detti, Mostrami in corpo e in anima qual sono: Capelli, or radi in fronte, e rossi pretti; Lunga statura, e capo a terra prono;
Sottil persona in su due stinchi schietti; Bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono; Giusto naso, bel labro, e denti eletti; Pallido in volto, piú che un re sul trono:
Or duro, acerbo, ora pieghevol, mite; Irato sempre, e non maligno mai; La mente e il cor meco in perpetua lite:
Per lo piú mesto, e talor lieto assai, Or stimandomi Achille, ed or Tersite: Uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.
9 Giugno [1786]
V. Alfieri, Rime, LVI
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo “infrangi-legge” sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. E, viceversa, tirannide parimente si dee riputar quel governo, in cui chi è preposto al creare le leggi, le può egli stesso eseguire. E qui è necessario osservare, che le leggi, cioè gli scambievoli e solenni patti sociali, non debbono essere che il semplice prodotto della volontà dei più; la quale si viene a raccogliere per via di legittimi eletti del popolo. Se dunque gli eletti al ridurre in leggi la volontà dei più le possono a lor talento essi stessi eseguire, diventano costoro tiranni; perché sta in loro soltanto lo interpretarle, disfarle, cangiarle, e il male o niente eseguirle. Che la differenza fra la tirannide e il giusto governo, non è posta (come alcuni stoltamente, altri maliziosamente, asseriscono) nell’esservi o il non esservi delle leggi stabilite; ma nell’esservi una stabilita impossibilità del non eseguirle. Non solamente dunque è tirannide ogni governo, dove chi eseguisce le leggi, le fa; o chi le fa, le eseguisce: ma è tirannide piena altresì ogni qualunque governo, in cui chi è preposto all’eseguire le leggi non dà pure mai conto della loro esecuzione a chi le ha create. Della tirannide, 1777
GUIDO DAVICO BONINO, Alfieri, spietato eroe della libertà. L’ispiratore di molti intellettuali del nostro Risorgimento e oltre, fino a Piero Gobetti, da “La Stampa”, 16 gennaio 2010 Vittorio Alfieri non ha ancora compiuto trent’anni (siamo per l’esattezza, nel 1778) quando compie un gesto a suo modo risolutivo anche se strettamente privato: il dono all’unica sorella, Giulia contessa di Cumiana, di tutti i propri beni in cambio di una pensione annua (sono ambedue gli unici figli del conte Antonio Alfieri Bianco di Cortemilia e di Monica Maillard di Touruon). Potrà così essere libero di vivere fuori del Piemonte e al tempo stesso di dedicarsi a tempo pieno non solo alla stesura delle ambitissime tragedie (da tre anni ha contratto una vera e propria «febbre» teatrale) e delle altrettanto predilette rime, ma anche a quella delle opere morali e politiche. L’anno prima a Siena ha preso a scrivere d’impeto i due libri Della tirannide (li riprenderà per dar loro esito a Parigi nell’87) e in quel 1778 ha dato inizio ad un altro trattato, Del principe e delle lettere. Anche questa seconda operetta verrà conclusa solo nel 1786 e vedrà la luce l’anno seguente a Kehl. Sarà uno dei libri-chiave per molti intellettuali del nostro Risorgimento, dal momento che il conte astigiano vi affronta un nodo per loro cruciale: quello del nesso tra potere politico e letteratura. Il principe, che per Alfieri altro non è che il tiranno, e il letterato non possono che essere «naturali nemici». Il letterato si prefigge infatti d’apportare agli uomini con i propri scritti «luce, verità e diletto», il principe guarda soltanto il proprio potere. «Spessissimo però accade (pur troppo!) che i sommi ingegni nascono necessitosi di pane»: di ciò il principe è consapevole tanto che, per addomesticare le lettere ai propri fini, si comporta con chi le pratica con ben mirata generosità. Fu questo il mecenatismo di Augusto con Virgilio, degli Estensi con l’Ariosto e il Tasso: mentre una «totale indipendenza » è necessaria «all’autore per ottimamente scrivere». L’«alto animo», il «forte sentire», l’«acuto ingegno » sono in lui altrettanto indispensabili che le «libere circostanze». Dal momento che i «letterati veri» non «possono lasciarsi proteggere da chi che sia», ne consegue che «pochissimi uomini» godranno della «totale indipendenza necessaria… per ottimamente scrivere». Una visione, quella dell’Alfieri, lucida sino all’amaro disincanto: come spietata è, in un certo senso, la conclusione cui egli approda: gli scrittori «eccellenti » sono stati quelli che sono vissuti non sotto un principe, ma nella repubblica: la «serva» Francia non riuscì a procreare «filosofi sommi», la libera Inghilterra vanta i «non protetti» Hume, Robertson, Gibbon. Ma proprio quest’impietosa lucidità fu quella che colpì e commosse gli uomini, che s’apprestavano a realizzare una nuova Italia. Presagio di ciò che non avrebbe potuto veder compiutamente realizzato (Alfieri, com’è noto, morirà a Firenze l’8 ottobre 1803, appena cinquantaquattrenne), l’autore si scatena nell’undecimo capitolo del terzo libro del suo pamphlet, sulle orme del Machiavelli, ad una vibrante «esortazione a liberar l’Italia dai barbari». Tra le molte «schiave contrade» dell’Europa di fine Settecento la «nostra Italia» pare all’Alfieri quella che «potrebbe più facilmente… assumere un nuovo aspetto politico». Essa infatti «abbonda di caldi e ferocissimi spiriti», che possono colla «verità e la ragione» espresse nei loro scritti eccitare «alla giusta e nobile ira» i «drittamente rinferociti e illuminati popoli», a cui spetterà realizzare nella nostra «penisoletta » «un nuovo e grandioso aspetto di politica durevole società». E’ questo conclusivo appello a far rifiorire «le vere lettere… nell’aura di libertà» che coinvolgerà gli scrittori-patrioti dell’Ottocento sino all’unità raggiunta dopo un quarantennio di lotte e battaglie, da Mazzini a Gioberti in poi. A Torino il 14 luglio 1922 si laureava con Gioele Solari con una tesi su La filosofia politica di Vittorio Alfieri, approvata col massimo dei voti e con la dignità di stampa, il poco più che ventunenne Piero Gobetti. Scrivendo il 16 agosto del ’20 da San Bernardino di Trana all’amico coetaneo aostano Natalino Sapegno, Piero così postillava: «Ho caro che tu legga, come mi dici, molto Alfieri. Io aspetto di tornare a Torino per rinsaldare le mie forze in quella sua forza che sempre mi fece bene da quando lo leggevo primamente a dodici anni nell’Autobiografia… ». La tesi“Il mio nome è Vittorio Alfieri: il luogo dove io son nato, l’Italia: nessuna terra mi è patria” (dal Misogallo). uscì per i tipi dello stesso Gobetti nel 1923: nel ’26 apparve postumo, per le cure dell’amico Santino Carcinella, Risorgimento senza eroi. Il settimo paragrafo del secondo capitolo era riservato a Vittorio Alfieri: Gobetti vi sottolinea appassionatamente «la sua inquietudine avventurosa», la sua «disperata necessità di polemica contro le autorità costituite, i dogmi fatti, le tirannie religiose e politiche».
“Il mio nome è Vittorio Alfieri: il luogo dove io son nato, l’Italia: nessuna terra mi è patria” (dal Misogallo, 1793-1799).
Le TRAGEDIE
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