Credo molto nelle potenzialità dei social network e vi sto di fatto spendendo le mie migliori energie. Sono convinta che una scuola 2.0 debba affiancare a un solido studio dei contenuti una diffusione degli stessi in un formato appetibile e soprattutto vicino alle modalità di comunicazione degli studenti, che di certo al giorno d'oggi non scrivono soltanto con carta e penna, ma ricorrono spesso alla leggerezza dei bits. Qualcosa che del resto già Calvino aveva preconizzato nelle sue Lezioni Americane.

Confrontarsi con il pubblico della comunità social, ben più vasto del microcosmo classe (e potenzialmente infinito), proponendo il proprio lavoro, significa per gli studenti sviluppare ottime doti di sintesi nell'esposizione dei contenuti e mantenere buon controllo ortografico. Non solo, essi devono imparare a scrivere in modo accattivante e spigliato, così da ottenere l'attenzione dei lettori, nonché variare il registro stilistico a seconda delle diverse situazioni comunicative.

lunedì 14 dicembre 2015

Sulla noia come sentimento sublime.

E. Munch, Malinconia,  1894-1896
G. Leopardi, Pensieri, LXVIII, 1831 – 1835, pubbl. postumi nel 1845:
La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.
Massimo Recalcati, Elogio della noia, “La Repubblica”, 15 novembre 2015
Occupati tra social, mail e smartphone non abbiamo più tempo per quella che era detta accidia. Che però in realtà è il desiderio di un mondo diverso

La connessione continua e il Nuovo ricercato a ogni costo producono sempre insoddisfazione. Invece l’atteggiamento espresso da uno sbadiglio si può associare all’attesa e alla rivolta. Vuol dire spostare avanti il limite e liberarsi da un ambiente ristretto e soffocante
I pomeriggi assolati dove non c’era «neanche un prete per chiacchierare», elevati da Paolo Conte alla dignità metafisica di un caracollare esistenziale senza «né fine, né meta», hanno dipinto per molti di noi estati dove le città erano davvero deserte e la solitudine di chi restava davvero esposta all’esperienza assoluta dell’assenza. Il nostro tempo non conosce più quelle sane oasi di noia: l’imperativo della connessione perpetua ha frastornato sia il prete che colui che ne ricercava invano la parola. Adesso, anziché tagliare le rose nel giardino per resistere ad un tempo che non passa mai, siamo a rincorrere un tempo in fuga perpetua che cancella tutti gli spazi vuoti.
Ogni interstizio temporale deve essere riempito da un febbrile attivismo o dalla violenza rabbiosa di chi, in modi diversi, non si trova immerso nel grande fiume dell’esistenza iperattiva, in permanente “mobilitazione totale”. Li ricordiamo ancora i ragazzi delle pietre lanciate dai cavalcavia delle autostrade? Il loro teppismo sciagurato non denunciava forse l’impossibilità di sostare nel vuoto, nel deserto di una vita di provincia che probabilmente non era così diversa da quella cantata da Conte? Ammazzare per gioco, non era forse un modo (assurdo) per ammazzare il tempo? Non accade anche oggi? In disuso, se Dio vuole, il gesto orrendo della pietra scagliata al passare anonimo delle automobili, la noia continua a foraggiare passaggi all’atto erratici che segnalano quanto insopportabile essa sia divenuta per noi occidentali: la violenza gratuita e vandalica, l’abbrutimento del consumo delle droghe, l’abuso compulsivo degli oggetti tecnologici, l’incentivazione di sensazioni sempre più inebrianti e assordanti hanno spazzato via l’immagine pastorale dell’oratorio deserto di Paolo Conte.
La noia non accompagna solamente il vuoto d’essere di chi si sente tagliato fuori dalla corsa all’affermazione della propria vita, ma anche chi in questa corsa si è affermato come primo. È quello che Kirkegaard, in pagine sublimi, descrive come l’ombra melanconica dello sguardo di Nerone che, nella leggenda, proprio per noia brucia la città di Roma. Anche il nostro tempo che sembra ipnotizzato dal culto del Nuovo rivela la stessa melanconia inquietante: tutto deve restare sempre acceso (I Phone, I Pad, social networks, televisione, ecc.), così freneticamente acceso che, come direbbe Didi-Huberman lettore di Pasolini, la flebile luce delle lucciole — che alludevano ad un tempo dove la noia non era ancora vissuta come un demone cattivo ma come un momento necessario alla vita -, si è definitivamente estinta.
Se la noia è divenuta oggi solo esperienza del tempo che gira su se stesso in una ripetizione priva di vita, i primi prigionieri di questa gabbia sono innanzitutto coloro che vivono facendo di tutto per sfuggirgli: l’euforia del Nuovo ricercato a tutti i costi svela, infatti, sempre la stessa identica insoddisfazione. Tuttavia, come sa bene lo psicoanalista, il Nuovo che vorrebbe evitare la noia non è mai realmente Nuovo, ma solo un suo cattivo antidoto che finisce, in realtà, per potenziare quella stessa noia che vorrebbe invece contrastare. Lo psicoanalista raccoglie dietro alle quinte dello spirito libertino del nostro tempo fatto di Aperi-cene e di Feste, la delusione annoiata che accompagna inesorabilmente i suoi protagonisti felliniani di cui La Grande Bellezza di Sorrentino ci ha dato un ritratto irresistibile. Non è questa una lezione della quale si dovrebbe tenere conto? Se al fondo della grande giostra dell’Occidente ritroviamo lo spettro della noia non è forse perché abbiamo frainteso profondamente il suo significato? Può la noia non essere solo l’esperienza soggettiva di qualcosa che si è semplicemente esaurito, che ha finito di essere vivo spegnendosi inesorabilmente, come in un rapporto di coppia sfiancato dal tempo o come nell’ascoltare un vecchio comico che ripete sempre lo stesso, ormai logoro, repertorio?
Nella noia, è vero, tutto si appiattisce, diventa grigio, ripetitivo, scontato. I padri della Chiesa, non a caso, la reclutano tra i sette vizi capitali sotto il nome di “accidia”: è il peccato della caduta del desiderio e del suo sfinimento, è il peccato che fa venire meno il miracolo stesso del mondo. L’annoiato, infatti, sembra non riesca più a fare alcuna esperienza “religiosa” del mondo perché niente lo colpisce, lo entusiasma, lo scuote più. Tutto appare piatto, prevedibile, già visto, già saputo, già fatto. È il carattere evenemenziale del mondo che viene meno e riduce la vita stessa a un ingranaggio anonimo che non riserva più alcuna sorpresa. L’annoiato sa che non ci sarà più niente capace di toccarlo, di farlo vibrare, di sorprenderlo; la noia accompagna il disincanto ipermoderno (cinico-materialistico) per il mondo. Il quartetto perverso che organizza il godimento più depravato e anarchico nel Salò di Pasolini è, innanzitutto, annoiato dal mondo. La loro apatia inquietante traduce la caduta verticale del senso autenticamente erotico della vita: nel nostro tempo non c’è più spazio per la meraviglia nei confronti dell’apparizione miracolosa del mondo.
Ma la noia è davvero solo il nome di questa malattia? La sua lezione non ci insegna forse anche qualcos’altro? La noia è il “desiderio dell’Altrove”, ha affermato una volta Lacan associandola stranamente alla rivolta, alla preghiera e all’attesa. Perché? Cosa hanno in comune queste esperienze apparentemente così diverse? Esse indicano la necessità della vita umana di allargare sempre l’orizzonte del proprio mondo, di spostare in avanti i propri limiti. L’annoiato è a prima vista colui che incontra il mondo come un orizzonte chiuso, ristretto, soffocante. Ma la noia non registra solo la chiusura del mondo; essa agisce anche come una spinta a riaprire, a rinnovare il suo orizzonte. L’annoiato è esausto del mondo così com’è, è sfinito dalla presenza oppressiva di questo mondo, ma non del Mondo come tale! Egli è come chi si rivolta ai padroni del mondo, come chi attende l’arrivo dell’Altro che gli porti un annuncio di vita nuova, come chi si inginocchia pregando e invocando l’Altro.
La noia mostra che questo mondo, il mondo visibile, il mondo come pura presenza, non è mai davvero tutto il Mondo. Essa trapela nello sguardo del bambino che per resistere al sapere asfissiante che la maestra gli propina non può che sbadigliare senza scampo. La sua testa cadrebbe pesantemente sul banco, se la sua noia, anziché ripetere sempre lo stesso mondo, come accade per la maestra, non ne invocasse l’esistenza di un altro. Lo sguardo del bambino si stacca dal banco e dai suoi quaderni, dalla lavagna tetra e dallo sguardo vuoto della maestra per rivolgersi finalmente Altrove. Dove? Fuori, via da lì, all’aperto, verso un altro mondo, Altrove; verso il glicine viola, il campo di calcio, la bambina che cammina con la sua veste rossa per strada, la neve che copiosa scende sul cortile. Non è forse questa la lezione più positiva della noia? La noia del bambino è sempre una rivolta, una attesa, una preghiera.


Heinrich Vogeler, Sensucht, 1908,
Valerio Magrelli, Una nobile tradizione di malinconia umor nero e spleen,  “La Repubblica”, 15 novembre 2015
Dal mondo greco a quello medievale da Leopardi a Cioran sono tanti gli autori che si sono ispirati a questo malessere
Per dire quanto vasto sia il mare della noia, nel 1916 Eugenio D’Ors compose unaOceanografia del tedio. Così facendo, lo scrittore catalano toccava un argomento millenario, relativo a uno stato d’animo chiamato nei classici greci akedia, nei latini taedium, nel medioevo acedia e nel Quattro-Cinquecento melanconia. Il termine noia, però, deriva dal latino in odio, “avere in odio”, formula che, dal provenzale enoja, darà vita addirittura a una forma poetica: l’enueg. Cominciamo da qui.
Al contrario del plazer, che elencava cose gradevoli, questa composizione era usata solo per lamentarsi. Così Girardo Patecchio poteva esclamare: «Noioso son, e canto de noio », tema ripreso da Shakespeare: «Stanco di tutto questo, quiete mortale invoco». Per non parlare dell’antichità (quando il disgusto di sé veniva scrutato da Lucrezio, Seneca, Marco Aurelio), la noia, dunque, fu innalzata a genere letterario sin dal XIII secolo. Altro che malattia dei moderni… Dietro l’attuale idea di depressione, si cela un concetto che investe la medicina, l’etica, l’estetica e la religione. Ciò che oggi definiamo calo di tono o abbattimento del regime psico-fisico, nasconde insomma una genealogia millenaria.
Intesa come effetto della “bile nera”, la noia, in tutte le sue possibili accezioni, seguiva una tradizione che, dal medico greco Galeno alla scienza araba, approdò al neoplatonismo fiorentino, finché, nel Rinascimento, divenne il contrassegno del Genio, associandosi ai nomi di Michelangelo, Dürer e Pontormo. Un paio di secoli dopo, anche grazie a Kant, alla stessa famiglia si uniranno Nerval e Coleridge, figure incomprensibili fuori del cerchio magico di quell’umor nero che Baudelaire ribattezzò con l’inglese spleen.
Ciò detto, bisogna ammettere che sarà Pascal a compiere il transito finale dalla nobile malinconia alla prosaica noia. Ci voleva un filosofo, cristiano e matematico, per affermare: «Niente per l’uomo è insopportabile come l’essere in pieno riposo, senza passioni, senza affari da sbrigare, senza svaghi, senza un’occupazione. Egli avverte allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto».
Appunto per sottrarsi a tale tormento, la società ha inventato i divertimenti, che Pascal intende secondo l’etimo de- vertere, ossia fuggire dagli affanni, volgere lo sguardo altrove. Da qui la folgorante affermazione (peraltro ispirata a Lucrezio) secondo cui «tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera».
Arriviamo così al quadrilatero composto da Leopardi, Schopenauer, Kierkegaard e Nietzsche. Scrive il nostro poeta: «La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana». Del pari, il filosofo tedesco osserva: «Col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor più terribili del bisogno».
Kierkegaard, invece, fa emergere piuttosto la nozione di angoscia, non senza che lo scrittore indichi però in Nerone, un uomo annoiato, in cerca di distrazioni, che si divertì provando a bruciare Roma… Quanto a Nietzsche, anche senza citare un tema cruciale come quello dell’Eterno Ritorno, basti ripetere: «Contro la noia, anche gli dei lottano invano».
Arriviamo così al pensatore del Novecento che più si concentrò su tale sentimento. Per Heidegger, la “noia autentica“, interpretata come totalità dell’esistere e momento rivelativo dell’esistenza, giunge a rappresentare uno degli stati d’animo fondamentali, «che va e viene nella profondità dell’esserci come una nebbia silenziosa».
Fermiamoci qui, nel mistero di una simile nebbia. E quando Paul Valéry commenta amaro: «Non sappiamo più come mettere a frutto la noia», affidiamoci a Cioran, il quale, vedendo nella noia una «condizione superiore» della conoscenza, sosteneva che l’uomo, ben lungi dal doversi sentire condannato alla noia, proprio da essa può, viceversa, cercare d’essere tratto in salvo.

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