Credo molto nelle potenzialità dei social network e vi sto di fatto spendendo le mie migliori energie. Sono convinta che una scuola 2.0 debba affiancare a un solido studio dei contenuti una diffusione degli stessi in un formato appetibile e soprattutto vicino alle modalità di comunicazione degli studenti, che di certo al giorno d'oggi non scrivono soltanto con carta e penna, ma ricorrono spesso alla leggerezza dei bits. Qualcosa che del resto già Calvino aveva preconizzato nelle sue Lezioni Americane.

Confrontarsi con il pubblico della comunità social, ben più vasto del microcosmo classe (e potenzialmente infinito), proponendo il proprio lavoro, significa per gli studenti sviluppare ottime doti di sintesi nell'esposizione dei contenuti e mantenere buon controllo ortografico. Non solo, essi devono imparare a scrivere in modo accattivante e spigliato, così da ottenere l'attenzione dei lettori, nonché variare il registro stilistico a seconda delle diverse situazioni comunicative.

giovedì 12 febbraio 2015

Tre Parole per Tre Figure



Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica, difficile del mondo
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.        
(Umberto Saba, 1946)
I poeti hanno ormai dichiarato guerra alle rime facili: cuore/amore, fiore/amore, dolore/amore e così via. Diciamocelo, allora, e una volta per tutte: è l’amore il problema, perché è lui, con quella sua desinenza così banale, a chiamare a sé l’accostamento con parole trite. Bisognerebbe dunque abolire l’amore dalle poesie come dalle canzoni: si eviterebbero così metafore sciocche e metonimie trite. O sineddochi?
Il problema della distinzione
Quando uno, riferendosi alle proprie delusioni amorose allude al cuore fa una metafora e, allo stesso tempo, una metonimia: la metonimia è una figura che designa, per esempio, la causa per l’effetto, il contenente per il contenuto («Bere un bicchiere»), l’autore per l’opera («Leggo Leopardi») e così via. È una metonimia anche dire “cuore” per “amore”: il cuore è infatti un simbolo, e in un certo senso è un contenente per il contenuto (anche se non è vero, siamo ormai tutti convinti che il cuore contenga il sentimento dell’amore).
A differenza della metonimia, di cui è parente stretta, la sineddoche designa “la parte per il tutto”: singolare per il plurale, specie per il genere e via dicendo.
E tuttavia per molti studiosi la differenza tra queste due figure retoriche è tanto sottile che non c’è. Entrambe servono per parlare di qualcosa senza nominarla direttamente. Qualcuno dice che c’è sineddoche quando i termini che usiamo hanno tra loro un rapporto di quantità, mentre c’è metonimia quando il rapporto si basa sulla qualità. Ma le cose non sono così chiare.
Ci sono per esempio casi, come la frase «Il soldo comanda e la spada lavora», in cui le parole “soldo” e “spada” possono essere sia metonimia che sineddoche: sono metonimia perché, per esempio, il soldo sta a indicare “chi ha soldi”, i ricchi; sono sineddoche perché viene usato il singolare per il plurale. Dunque, che fare? L’abbiamo detto: cominciamo a eliminare l’amore, ne guadagneremo in originalità e ci risparmieremo di dover fare troppe distinzioni.

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