Credo molto nelle potenzialità dei social network e vi sto di fatto spendendo le mie migliori energie. Sono convinta che una scuola 2.0 debba affiancare a un solido studio dei contenuti una diffusione degli stessi in un formato appetibile e soprattutto vicino alle modalità di comunicazione degli studenti, che di certo al giorno d'oggi non scrivono soltanto con carta e penna, ma ricorrono spesso alla leggerezza dei bits. Qualcosa che del resto già Calvino aveva preconizzato nelle sue Lezioni Americane.

Confrontarsi con il pubblico della comunità social, ben più vasto del microcosmo classe (e potenzialmente infinito), proponendo il proprio lavoro, significa per gli studenti sviluppare ottime doti di sintesi nell'esposizione dei contenuti e mantenere buon controllo ortografico. Non solo, essi devono imparare a scrivere in modo accattivante e spigliato, così da ottenere l'attenzione dei lettori, nonché variare il registro stilistico a seconda delle diverse situazioni comunicative.

sabato 24 gennaio 2015

L'utilità dell'inutile


Copertina
Il libro scritto dal prof. Nuccio Ordine, ordinario di letteratura italiana all’Università della Calabria e di cui è qui raffigurata la copertina, costituisce una ricchezza che tutte le persone di cultura – e quindi quelle che sanno di non essere acculturate abbastanza – dovrebbero leggere. 
Nel testo si enuncia una concezione della cultura e dell’istruzione, da me da sempre condivisa, secondo cui le conoscenze che si apprendono nella vita, ma soprattutto nella scuola e all’università, non devono essere necessariamente ricondotte alla categoria dell'”utile”, cioè a ciò che “serve” nella vita pratica e nelle attività lavorative, economiche e commerciali. Nella nostra società, soprattutto in questi ultimi anni, si è infatti affermata con prepotenza una mentalità materialistica e utilitaristica, secondo cui si dovrebbe studiare e sapere soltanto ciò che può essere finalizzato – immediatamente e direttamente – allo svolgimento di un lavoro che fornisca uno stipendio o comunque al raggiungimento di certe “competenze” tecniche da applicare nella vita quotidiana. Questo deprecabile modo di pensare ha avuto pesanti riflessi nella nostra scuola, colpendo in modo particolare i licei, al punto che un indirizzo di studi altamente formativo come il liceo classico pare addirittura a rischio di sopravvivenza. E quelli che si iscrivono ai licei preferiscono di gran lunga lo scientifico, il linguistico nella errata convinzione, non soltanto che siano meno impegnativi del classico, ma anche che siano più “utili”, appunto, perché fondati sulle discipline scientifiche e sulle lingue straniere (ritenute più consone ai tempi attuali) e con una ridotta presenza delle discipline umanistiche, che agli occhi di molte persone non rientrano nella categoria dell’utilità pratica. 
A questo punto, però, urge fare qualche precisazione. Se volessimo considerare le discipline studiate a scuola in base al mero parametro dell'”utile”, allora nessuna di esse (tranne forse alcune materie dei professionali) avrebbe diritto di cittadinanza. Forse che a qualcuno capita, nella vita di tutti i giorni, di dover risolvere equazioni di secondo grado o problemi di analisi matematica? E poi, se capitasse, c’è sempre la calcolatrice…  Per non parlare di altre discipline come storia, geografia, filosofia, letteratura, musica, arte, ecc.: si può vivere benissimo senza conoscerle, e se a qualcuno caso mai, in un rigurgito di curiosità intellettuale, venisse un dubbio su qualche argomento, basta andare su Wikipedia e la risposta è lì, bella e pronta, messa sotto il nostro naso come un piatto di spaghetti già conditi. Quindi perché studiarle a scuola? Evidentemente perché la cultura, come sostiene l'autore del libro e molti altri illustri studiosi anche dell’ambito scientifico, non deve soltanto “servire”, ma prevalentemente “formare”, ossia creare nel discente una mente pensante che sia in grado di prendere autonomamente le sue decisioni, conoscere i propri diritti e doveri, osservare la realtà con spirito critico. E da questo punto di vista tutte le discipline non “tecniche” sono “utili”, nel senso che torna sommamente costruttivo ciò che invece, agli occhi della società moderna, sembra “inutile”. Sul piano formativo del pensiero autonomo, infatti, non v’è molta differenza fra una traduzione dal latino e un esercizio di matematica, perché entrambi richiedono uno sforzo di intuito e di ragionamento autonomo che è l’esatto contrario di Wikipedia e di tutto ciò che su internet o altrove si trova già pronto, senza che sia richiesto alla mente umana il minimo sforzo. Ed è per questo che proprio ciò che sembra non avere utilità pratica finisce invece per essere fondamentale, l’unico strumento attivo che oggi abbiamo per contrastare l’atrofizzazione delle facoltà mentali provocata dalla “civiltà dell’immagine”, come si suol chiamare l’insieme delle notizie “usa e getta” fornite dagli strumenti informatici e mediatici che condizionano pesantemente la nostra esistenza.
Quando io, alla tenerà età di 14 anni, scelsi di frequentare il liceo classico, lo feci perché quella scuola mi piaceva più di tutte le altre, e mi piaceva proprio il fatto che era quella che “serviva” di meno, convinta come sono sempre stata che l’istruzione e la cultura non devono essere viste solo come un semplice strumento per ottenere un posto di lavoro retribuito, ma come il tramite essenziale per la formazione completa della personalità. E ancor oggi, dopo tanti anni, rimango della stessa idea, perché credo fermamente che le discipline umanistiche (non solo il greco ed il latino, ma tutte nell’insieme) siano fondamentali, anche e soprattutto in questa società tecnologica; e non soltanto per la formazione del pensiero critico di cui dicevo sopra, ma anche perché la conoscenza del codice lingua, pur non essendo più l’unica forma di espressione, è ancora insostituibile. Se qualcuno, ad esempio, si troverà nella necessità di svolgere una relazione, la presentazione di un progetto, oppure presentarsi a un colloquio di lavoro o tenere un discorso in pubblico, anche se parlerà di “marketing” o “problem solving” (termini orribili!) dovrà comunque farlo in una lingua corretta e fluida, dovrà convincere gli ascoltatori o i lettori della validità del suo lavoro, dovrà, in altre parole, far ricorso ai mezzi espressivi della retorica classica. Del resto non sarà certo un caso se tanti ottimi ingegneri, matematici, fisici biologi ecc. provengono appunto da questa scuola. E’ ora di finirla per sempre con la surrettizia distinzione oppositiva tra cultura umanistica e scientifica: la cultura è una soltanto, un’unica grande pianta suddivisa in tanti diversi rami. Questo sostiene, appunto, il libro del prof. Ordine, il quale ci mostra come nella storia dell’umanità proprio ciò che sembrava inutile, nozionistico e persino pedante ha invece ricoperto un ruolo decisivo per la scienza e per il progresso umano.
Purtroppo ancor oggi si sentono pronunciare tante idiozie, purtroppo anche dalla bocca di persone in vista o che comunque hanno un potere politico o mediatico. Ho letto da qualche parte che un certo imprenditore a me ignoto, ma a quanto pare molto famoso, ha proposto di togliere spazio alle discipline umanistiche e di far studiare solo ciò che è “cool” e “figo”. A parte il linguaggio squallido e rozzo, cosa voleva intendere con quelle parole? "Cool" in inglese significa “fresco”, mentre “figo” è un orrendo termine che vale “simpatico, divertente” o simili. Quindi a scuola si dovrebbero studiare solo gli argomenti di attualità (freschi, appunto) e far divertire gli alunni, trasformando insomma la scuola in un luna park o una sala da giochi. E di fronte a uscite del genere c'è da ridere sì, ma per non piangere!






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