A. PROSPERI, L’Umanesimo, la stampa, le nuove geografie mentali, in Storia moderna e contemporanea,Torino, Einaudi, 2000, I, pp. 102-120
Lo spirito di avventura, la fiducia nelle proprie forze, la curiosità e l’apertura intellettuale che si percepiscono nelle relazioni dei viaggiatori e dei conquistatori europei ci parlano di una cultura nuova, ottimista, fiduciosa nella leggibilità del mondo e nel valore delle azioni umane.
Né la cupa minaccia delle epidemie di peste né il pericolo imminente dell’avanzata turca sembrano capaci di alterare questa disposizione generale del modo di pensare. Per indicare il valore umano, l’italiano dell’epoca usava il termine «virtù» (latino virtus) e lo immaginava in perenne e contrastato legame con la cieca sorte, il caso, indicati anche qui dal termine latino «fortuna». Da Dante a Machiavelli, la «virtù» umana individuale è una grande protagonista dei pensieri di questa cultura. Già l’Ulisse dantesco richiamava ai suoi compagni un’idea alta della natura umana:
Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza.
L’uomo ha una dignità superiore a quella di ogni altro essere, può spingere il suo valore fino a superare non solo gli animali bruti ma perfino le creature celesti, gli angeli; cosi il filosofò Pico della Mirandola spiegava ed esaltava la «dignitas hominis». Questo atteggiamento fiducioso e creativo portava a rifiutare l’immobilità della tradizione, sul piano della conoscenza, ma anche su quello degli assetti costituiti della società. La nobiltà non era una condizione data dalla natura ed ereditata per via di sangue da un gruppo sociale chiuso, ma era un dono dato a ogni uomo che doveva e poteva conquistarselo col suo valore. Tanta fiducia era alimentata anche dall’espansione del mondo conosciuto e dal mutamento sociale che portava le fortune accumulate col rifiorente commercio a intaccare l’ordine tradizionale del potere e della ricchezza fondato sulla terra e sulla nobiltà di sangue.
Se si aggiunge lo scompiglio portato dalle correnti di riforma nell’altro pilastro della società costituito dal clero, si ha un’idea dell’aria nuova che circola nella società europea. Anche qui, si trattava di opporre al mondo chiuso di un potere ecclesiastico arroccato nel godimento delle sue rendite e dei suoi onori, un’idea del valore morale e religioso dei comportamenti umani non dato una volta per tutte ed esteriormente misurabile, ma da conquistare individualmente e misurabile col metro interiore della coscienza.
Per questo insieme di valori che vediamo farsi strada nelle città europee occidentali a partire dal Trecento e che giunse al massimo della sua fioritura nella cultura italiana tra Quattrocento e Cinquecento, si è coniato il termine Rinascimento (che ha particolare riferimento alle creazioni delle «arti belle», pittura, scultura e architettura), e gli si è accostato quello di Umanesimo (che si riferisce maggiormente alla cultura letteraria e filosofica). I termini e i concetti storici sono forme di generalizzazione che hanno la funzioe di sintetizzare i caratteri di un’epoca, di un fenomeno storico. La generalizzazione avviene cogliendo tendenze complessive, sacrificando caratteri secondari. É utile se e nella misura in cui permette di scoprire qualcosa di nuovo, di proporre schemi e interpretazioni che aiutano a comprendere. Uno dei termini che da più di un secolo occupa un campo preciso della storia italiana ed europea è quello di Rinascimento, spesso associato con quello di Umanesimo.
Jacob Burkhardt (1818-1897)
Quello che si è inteso indicare con questi termini è un aspetto relativo alla cultura scritta e figurata, alle idee, al modo di guardare a se stessi e al mondo. Ambedue i termini riprendono immagini e parole che furono usate e diffuse nel linguaggio dell’epoca che va dal Trecento al Settecento: ma li trasformano in concetti generali e astratti. All’epoca, il ritorno d’attualità della cultura letteraria e antica greca e latina fece parlare di reviviscenza e di «rinascita». Come le piante che dopo il letargo stagionale rimettono i loro germogli, cosi sembrava avvenire nei fenomeni culturali. Immagini tratte dal lavoro dei campi, l’attività sociale più diffusa e più importante per l’intera popolazione – permeavano il linguaggio e fornivano le metafore più usate per la cultura (del resto ancora oggi questo termine ha conservato la sua antica radice agricola). Ma è stato solo verso la metà dell Ottocento che l’immagine del rinascere ha suggerito agli storici Jules Michelet e Jacob Burckhardt il termine «Rinascimento» per indicare una serie di cambiamenti di ordine culturale coi quali si sarebbe chiusa l’età del Medioevo e si sarebbe aperto l’Evo Moderno. Burckhardt li vide come l’aurora della moderna borghesia. il momento nascente di un radicale cambiamento di valori rispetto a un Medioevo pervaso di ascetismo negatore dei valori della vita terrena. Fu – secondo questa intuizione - l’epoca nascente dell’individualismo caratterizzata dall’emergere di grandi personalità, dotate di un’aggressiva volontà di piegare il mondo ai propri voleri. L’uomo, e non Dio, è il centro dell’interesse; lo Stato, l’arte, la scienza sono investiti da una volontà creativa, decisa a saggiare i limiti delle proprie capacità.
Quando, come e perché della svolta sono stati indagati e discussi a lungo. C’è stato chi ha negato che la svolta stessa sia avvenuta. Si è detto: non si possono sopravvalutare fenomeni che riguardano piccole minoranze di uomini di lettere e di artisti del mondo cittadino di una piccola porzione dell’Europa occidentale. Si è detto: non ci fu un Rinascimento delle donne, che continuarono a vivere in condizioni di inferiorità rispetto al mondo maschile; e neppure i contadini ebbero un loro Rinascimento. Il concetto generale e astratto, coniato sulla base di una intuizione, si è comunque tradotto in un vasto campo di conoscenze storiche. Oggi possiamo non occuparci più dei contorni generali di quella intuizione e non chiederci più se si trattò davvero dell’inizio dell’età moderna, del momento aurorale, liberatorio e creativo della borghesia. Ma certi tratti della storia della cultura tra il secolo XV e il XVIII sono ormai indubbi.
Qualcosa di simile si può dire per l’Umanesimo. La società italiana ed europea dei secoli XV-XVI non conobbe l’Umanesimo ma conobbe gli umanisti. Erano insegnanti di «litterae humanae» coloro che insegnavano a scrivere e a esprimersi in un latino elegante, a imitare lo stile di Cicerone e dell’età classica. L’Umanesimo come concetto astratto è un’altra cosa: fu inventato nell’Ottocento per indicare una filosofìa e una pedagogia che ponevano al centro l’uomo. Poi, si è parlato di età dell’Umanesimo per indicare quel rivolgere lo sguardo dai problemi metafisici della teologìa medievale alla realtà umana di cui si è già accennato a proposito del Rinascimento.
Infine, riaccostandosi al significato proprio del termine «umanista», si è riconosciuto che un carattere specifico dell’epoca che va da Dante e Petrarca fino a Voltaire risiede proprio nell’importanza attribuita alla parola scritta: il libro, la comunicazione e la persuasione attraverso la pagina meditata e poi fatta leggere, sono un tratto caratterizzante di quest’epoca che la distingue da ogni altra. II libro è lo strumento per conoscere se stessi e per lasciare memoria di sé. Questa è la nuova dimensione della conoscenza: una dimensione che, ponendo l’uomo al centro dell’interesse, entra in conflitto con la teologia coltivata nei conventi, come speculazione astratta su Dio. La pagina scritta permette un dialogo diretto con gli antichi: Petrarca scrive lettere a Cicerone, Machiavelli interroga attraverso i libri gli spiriti grandi dell’antichità:
«e quelli per loro humanità mi rispondono»,
dice Machiavelli, che da quel dialogo con gli antichi ricava il suo modernissimo Principe. «Umanità» è la parola che domina l’orizzonte culturale di questa fase della storia: in un primo momento, domina senza ostacoli; poi, a partire dall’introduzione della censura sui libri a stampa, la paura delle conseguenze rivoluzionarie dell’alfabetizzazione porta, al controllo, al sospetto, alla limitazione del diritto di sapere, di leggere, di pensare.
Una rivoluzione silenziosa : il libro a stampa
Johannes Gutemberg (1394/99 – 1468)
C’è chi ha proposto di immaginare, dietro il suo nome di individuo e dietro il suo mestiere di artigiano, un’intera sconfinata galassia: la «galassia Gutenberg». Ma di Johann Gutenberg (1400-68), tedesco di Magonza, sappiamo in fondo piuttosto poco. Noi lo diremmo uomo del Medioevo, anche se per lui questa definizione non aveva senso: fu membro di una corporazione, quella degli orafi, e portò nel suo lavoro lo spirito artigiano dell’opera ben fatta, a gloria di Dio.
Cominciò a Strasburgo a fare esperimenti su di una tecnica di fusioni di caratteri che mise a punto a Magonza, dove nel 1450 apri la sua prima tipografia. Si dovette a lui un’innovazione tecnica che da Magonza fu poi esportata rapidamente nel resto d’Europa – soprattutto in Italia – e ulteriormente perfezionata: la stampa a caratteri mobili, in metallo. Prima di lui, era conosciuta la tecnica della stampa in più copie di un disegno o un testo inciso su legno (xilografia), inventata in Cina e diffusa in Europa a partire dal Duecento. Dalla Corea e poi dalla Cina giunse anche la tecnica della stampa di intere pagine, fuse nel piombo versato in stampi di terracotta. L’innovazione portata da Gutenberg consistette nel fondere i singoli «caratteri» o «tipi» che poi venivano assemblati per comporre pagine intere e potevano essere riutilizzati indefinitamente. Il primo libro che prese vita nella culla della storia della stampa – il primo «incunabolo», come sono definiti appunto i libri stampati nel Quattrocento – fu una Bibbia latina, a foglio intero (in folio) stampata nel 1456. Costò quattro anni di lavoro.
Incunabolo, Philippe Pigouchet 1498
La scelta della Bibbia e il fatto che Gutenberg non ponesse il suo nome sull’opera che gli era costata tanta fatica bastano a dimostrare che la sua era ancora la mentalità dell’artigiano del Medioevo che cercava non la sua gloria ma quella di Dio. Era un libro presente da secoli nella cultura del mondo mediterraneo e di tutta l’Europa. Ma nella sua nuova veste, doveva diventare di li a poco, nelle mani di un altro tedesco, Martin Lutero, uno strumento rivoluzionario.
La società europea che accolse l’invenzione di Gutenberg dimostrò però di essere diversa da quella società cinese che molto tempo prima aveva inventato la carta, il procedimento della stampa e i primi libri a stampa. Lì la cosa rimase una curiosità per pochi. In Europa, invece, la nuova arte della tipografia, con tutti i mestieri connessi (compositore, correttore di bozze, illustratore, rilegatore, libraio – e, naturalmente, autore e lettore), si diffuse con straordinaria rapidità e assunse presto caratteri di fenomeno sociale di massa.
Si cominciò in sordina: in Italia, la prima tipografia fu impiantata da un tedesco nel monastero benedettino di Subiaco: stampò prima, forse, una grammatica latina poi un’edizione di opere di Lattanzio (1465). Ma ben presto le stamperie uscirono dai luoghi tradizionali della cultura, le biblioteche conventuali, e diventarono imprese commerciali e culturali autonome. Furono stampati centinaia e centinaia di migliaia di libri; ancora oggi, nel mondo ce ne sono circa 450 000, di cui almeno un quarto in Italia. Il libro era già una realtà presente e importante nella società europea. Ma era un prodotto di lusso, riservato a pochi, costosissimo. È vero che si stava abbandonando l’uso della cartapecora, sostituita dalla più economica carta, anche questa un’invenzione cinese, diffusa in Europa dagli arabi fin dal secolo XII, con la macerazione degli stracci di lino. Ma chi voleva esaltare il proprio prestigio ricorreva ancora al lavoro degli amanuensi e dei miniatori e alle costosissime tecniche tradizionali.
Proprio mentre Gutenberg lavorava alla fusione dei caratteri mobili, Sigismondo Malatesta, signore di Rimini e di Cesena, mise al lavoro decine di copisti per riunire una lussuosa raccolta di manoscritti in una biblioteca di straordinaria eleganza architettonica che aveva fatto costruire a Cesena. Era una iniziativa tipica del gusto delle nuove e raffinate signorie cittadine. Anche il marchese di Ferrara Borso d’Este cercò nel libro un simbolo vistoso della sua potenza: su pergamene finissime fece copiare e decorare con raffinate miniature il testo della Bibbia. Ne nacque un volume di 1200 pagine di straordinaria fattura. Andando a Roma a festeggiare il neoeletto papa Sisto IV, per ottenerne il titolo ducale, si portò dietro quella Bibbia a testimonianza del suo prestigio. Tutti coloro che volevano dimostrare la propria raffinatezza di gusti, si facevano una biblioteca di opere rare e preziose: cosi Lorenzo de’ Medici a Firenze, cosi Mattia Corvino, re d’Ungheria.
Aldo Manuzio (1449 – 1515)
Il libro a stampa era cosa di minor pregio e di minor prezzo; poteva passare per le mani di personaggi meno ricchi e potenti ma desiderosi di leggere. Nella fortuna del libro a stampa investirono uomini di cultura che volevano diffondere idee nuove e una nuova apertura di orizzonti: umanisti nel duplice senso di insegnanti di lettere e di amanti della cultura e dei valori riposti nei libri degli antichi che ora venivano riportati alla luce. Fra tutti, merita di essere ricordato Aldo Manuzio, nato nel Lazio intorno al 1450 ma attivo come editore a Venezia fino alla morte (1515), protagonista della grande fioritura della stampa a Venezia e inventore di un nuovo tipo di libro.
Si dovette a lui la creazione di caratteri tipografici che dettero alla pagina stampata lo stesso aspetto della pagina manoscritta codificando proprio il tipo di scrittura umanistico che sostituì la pesante grafia gotica: la scrittura corsiva, che nell’arte tipografica prese il nome di carattere «aldino» o «italico». Ad Aldo Manuzio si dovette anche l’invenzione del libro di piccolo formato, che poteva essere messo in tasca e portato con sé come compagno sempre disponibile in mezzo ai traffici e ai viaggi, senza bisogno di essere solennemente depositato e magari incatenato al leggìo di una biblioteca monastica o di corte. E nei libri tascabili in corsivo umanistico arrivarono tutti i capolavori della letteratura in volgare, mentre cominciavano le prime edizioni a stampa (editio princeps) dei classici latini e greci: proprio ad Aldo Manuzio si dovette la grande impresa di un’ediziohe della totalità degli scritti di Platone in greco. Il libro era alla portata di tutti. Non c’era più bisogno di «transcribere in membra» (membranaceo, cioè su pergamena), scriveva un umanista bresciano nel 1506, bastava comprare
«li libri impressi, quali se danno adesso per uno pezo de pane».
La cultura del libro e la nuova posizione dell’intellettuale laico: Valla ed Erasmo da Rotterdam
C’era dunque fame di libri prima che la stampa mettesse a disposizione lo strumento adatto. Ma quali libri? e che cosa si cercava nei libri? Tra i libri che vennero pubblicati, troviamo in primo luogo e soprattutto autori classici, latini e greci. Di scrittori della cultura pagana antica si era nutrito il Medioevo cristiano; basterà pensane a cosa era stato Virgilio per Dante. Ma Dante aveva avuto bisogno di fare di Virgilio un profeta del cristianesimo. Il riuso dell’antico era stato il metodo di appropriazione che aveva caratterizzato la scultura romanica, l’architettura delle chiese cristiane e la cultura letteraria del suo tempo. Invece, il modo in cui la cultura Umanistica del Quattro-Cinquecento si venne accostando ai classici fu caratterizzato dal senso della distanza storica e dal proposito di far rivivere attraverso l’imitazione e lo studio le qualità che avevano reso grande quella cultura antica.
Lorenzo Valla (1405-1457)Un esempio significativo del rapporto nuovo coi testi e dei valori che stavano dietro le nuove curiosità lo possiamo trovare nell’umanista Lorenzo Valla (1405-57). Professore di retorica all’università di Pavia, poi segretario di Alfonso d’Aragona, fu il grande maestro della nuova filologia, che applicò ai documenti storici, agli autori latini e al Nuovo Testamento.
In una «declamatio» scritta nel 1440 in difesa delle ragioni dì Alfonso d’Aragona e contro le pretese papali di sovranità temporali ereditate per donazione di Costantino imperatore, Lorenzo Valla dimostrò con argomenti filologici e di accurata analisi testuale che la «donazione di Costantino a papa Silvestro» era un falso redatto molto tempo dopo l’epoca di Costantino. Era la prima applicazione di un rigoroso metodo storico di accertamento dell’autentìcità dei documenti. Ma era anche l’espressione di un atteggiamento critico verso il mondo ecclesiastico, i suoi privilegi, le sue pretese: Valla criticò, in altri scritti, la vita monastica, sostenendo che il dovere del vero cristiano è l’imitazione di Cristo, non la ricerca monastica della perfezione nei chiostri.
Le sue idee provocarono reazioni molto forti. Furono avversate violentemente dalla Curia romana, i cui difensori sostennero a lungo l’autenticità e il valore giuridico della cosiddetta «donazione di Costantino».
Ma tra i suoi ammiratori ci fu il principe degli umanisti, Erasmo da Rotterdam, l’uomo che attraverso il libro a stampa estese cosi largamente il suo influsso e il suo modello di uomo da creare una vera forza di opinione. Si chiamava Geert prima di ribattezzarsi umanisticamente in «Erasmus», ed era nato a Rotterdam nel 1469. Sulla sua formazione influì il movimento della «devotio moderna» creato e diffuso nei Paesi Bassi da Geert Groote, movimento caratterizzato da una forte insistenza sull’imitazione di Cristo e sulla lettura personale della Bibbia. Fu all’interno di quel movimento che venne scritto il testo più diffuso della nuova devozione e uno dei testi più popolari di tutti i tempi, il trattatello «della imitazione di Cristo», che circolò a lungo anonimo e fu opera di Tommaso da Kempis.
Erasmo da Rotterdam (1466-1536)
Erasmo contribuì a diffondere il nuovo sentimento religioso, attraverso scritti che per l’eleganza classica del loro latino, per l’ironia e l’intelligenza che irradiavano, ma anche per l’abilità e la cura degli editori – Aldo Manuzio a Venezia, poi il Froben a Basilea -, passarono per le mani di moltissimi lettori. Spirito europeo in anticipo sui tempi, Erasmo viaggiò attraverso vari paesi, sostò a lungo in Italia, mantenne un dialogo epistolare con uomini di cultura di ogni paese: inglesi, spagnoli, francesi, tedeschi, trovarono in lui l’interlocutore che meglio esprimeva una cultura e una moralità superiore, capace di ristabilire la possibilità di intendersi in un linguaggio comune al di sopra dei conflitti militari, politici e religiosi sempre più gravi che laceravano il mondo cristiano occidentale e lo dividevano in appartenenze nazionali e in obbedienze teologiche in lotta fra di loro.
La moralità erasmiana è fatta di tolleranza e insieme di critica delle storture della società. Nel suo Elogio della follia (1509) l’occhio della ragione investe il mondo e scopre che la religione è ipocrisia e strumento di sopraffazione, che il potere è in mano a incapaci, che sotto le apparenze e sotto le giustificazioni ufficiali si nascondono aspetti assurdi, comici, irrazionali del modo di funzionare della società. La follia è la potenza che domina il mondo. Ma l’occhio del sapiente sa andare oltre la superficie e scoprire dietro le apparenze ingannevoli i veri valori nascosti. Nella fortunata serie degli Adagia (proverbi, modi di dire), Erasmo mostrò ai suoi ammirati lettori come si potesse ragionare pacatamente e con ironia sui valori e sulle pratiche del mondo mettendo a frutto una cultura ricchissima e capace di attingere ai testi dell’antichità classica e del primitivo cristianesimo non ancora corrotto dalla ricchezza e dal potere. Erasmo rifìutava l’ideale esclusivamente formale di imitazione dei classici, quello dei cosiddetti «ciceroniani», che si attenevano al modello dello stile piuttosto che attingere alla ricchezza dei contenuti della cultura classica. Anche per il cristianesimo, Erasmo rifiutava il formalismo e l’ortodossia rigidamente fissata in formule teologiche, insistendo piuttosto su un’interpretazione essenzialmente morale, come imitazione di Cristo; era contrario alle sottigliezze teologiche dei frati e alla loro intolleranza nei confronti degli «eretici».
Come Valla, riteneva che non dall’abito si dovesse giudicare la fedeltà al Vangelo e criticava l’ipocrisia dei conventi: un principio che gli era caro affermava che «il farsi monaci non è vera religione» («monachatus non est pietas»). E particolarmente dura fu la sua critica di molti aspetti della vita religiosa: il culto dei santi, per esempio, col vero e proprio patronato che ogni santo aveva su determinate malattie o aspetti della vita; e poi le reliquie e le superstizioni di ogni genere. E ancora, le contraddizioni fra parole e fatti: Erasmo era un convinto pacifista: uno dei suoi scritti più amati dai lettori fu il «Lamento della Pace» (Querela pacis) maltrattata e oppressa in tutta Europa proprio da quei papi e da quei principi cristiani che dovevano proteggerla.
Ma fu soprattutto nel rapporto col testo capitale della civiltà cristiana europea che l’umanesimo erasmiano portò a una svolta importante: il cristianesimo è l’annuncio del nuovo patto («novum instrumentum», come Erasmo propose che si dovesse intitolare più precisamente il «Nuovo Testamento») stretto da Dio coi credenti. Se il cristianesimo era l’adesione a un patto scritto, allora bisognava che tutti lo leggessero e che cercassero di comprenderlo servendosi degli strumenti necessari. E gli strumenti erano quelli necessari per la lettura dei libri: leggere, intanto, e capire il significato letterale delle parole abbandonando la strada medievale dell’allegoria, con la quale si poteva far dire al testo qualsiasi cosa. Al posto della pagina manoscritta medievale della Bibbia, dove intorno al testo si addensava una selva di «glosse» che lo soffocavano e lo riservavano ai teologi di mestiere, ora la stampa offriva i mezzi per portare a tutti la pura e autentica parola di Dio. Bisognava prima di tutto ristabilire il testo autentico, coi criteri filologici adatti per correggere gli eventuali errori della trasmissione manoscritta: e poi farlo leggere a tutti.
Erasmo avviò questo lavoro, fornendo edizioni del Nuovo Testamento e dei commenti più antichi, quelli dei cosiddetti Padri della Chiesa. Chi lo segui su questa strada si adoperò per perfezionare la critica filologica del testo evangelico e per tradurlo nelle lingue volgari. L’ideale religioso e quello intellettuale si saldavano, nella proposta erasmiana, creando quello che si può definire l’Umanesimo cristiano. L’amore per le lettere trovava la sua giustificazione religiosa nella proposta di una superiore moralità, in cui gli insegnamenti della morale stoica, la filosofia platonica e l’aldilà cristiano si incontravano e si alleavano. Al posto dei santi adorati superstiziosamente da chi li trattava come gli idoli pagani per chieder loro di guarirli dal mal di denti o di proteggerli in guerra, si avanzava la figura del grande uomo dalla saggezza superiore:
«sancte Socrates, ora pro nobis».
La minaccia del deriso mondo fratesco si fece presto sentire sulla testa di Erasmo. Le facoltà di teologia della Sorbona (Parigi) e di Salamanca, dominate dai grandi ordini religiosi, cominciarono a far gravare sulla sua testa l’accusa di eresia. Erasmo ironizzava sull’Inquisizione. Ma lo scoppio della tempesta luterana rese pericolosa l’ironia: non si poteva piu scherzare coi santi. In Spagna, dove le idee di Erasmo erano diffuse e perfino i consiglieri di Carlo V erano convinti erasmiani, il Sacco di Roma del 1527 apparve come la giusta punizione divina su di un papa che non era il padre comune dei cristiani e non riformava la sua Chiesa. Ma, subito dopo, le cose volsero al peggio. Gli erasmiani furono sospettati di eresia. Erasmo aveva dato prova della sua ortodossia alla Chiesa di Roma attaccando la tesi luterana del«servo arbitrio» con un trattato che sosteneva la tesi cara agli umanisti della libertà della volontà umana (De lìbero arbitrio, 1524). Ma questo non lo mise al sicuro dagli attacchi. Solo l’ospitalità della tollerante e libera città di Basilea gli permise di vìvere tranquillo i suoi ultimi anni e di stampare i suoi scritti liberamente. Ma già nel 1537, subito dopo la sua morte, una commissione di prelati romani propose al papa di proibire la lettura dei suoi Colloqui familiari, un’opera che attraverso il genere letterario del dialogo diffondeva valori di tolleranza e di libertà intellettuale.
La moda e l’imitazione dell’antico
Marsilio Ficino (1433-1499)
Il culto dell’antico fu, tra Quattro e Cinquecento, qualcosa che andò molto al di là della cultura letteraria e fu una vera e propria moda. I principi e i membri del patriziato e della nobiltà curarono la raccolta e la collezione di antichità: sculture, monili, cammei, ornarono le collezioni che venivano esibite ai visitatori importanti. Nacquero cosi, nelle residenze dei potenti, locali nuovi: gli «studioli», ambienti raccolti dove all’ombra di busti di antichi filosofi e scrittori il principe poteva immaginarsi dedito alla meditazione sull’arte del governo o intento a scrivere lettere memorabili. Si saccheggiarono le riserve di antichità presenti nelle città italiane, soprattutto nelle antiche capitali del mondo romano: da Ravenna, il signore di Rimini Sigismondo Malatesta fece trasportare coi carri ingenti quantità di marmi lavorati per la costruzione di una nuova chiesa in stile anticheggiante, progettata dal Mantegna: il «Tempio Malatestiano».
A Firenze, Cosimo de’ Medici, ricchissimo e prestigioso aspirante alla signoria della città, non solo raccolse una splendida collezione di antichità ma rinverdì il modello del «mecenate»: nel 1462 dette al giovane e dotto Marsilio Ficino, figlio del suo medico, due cose: un testo greco degli scritti di Platone e le rendite della sua villa di Careggi. Con quelle rendite, il giovane doveva lavorare alla traduzione in latino di Platone, per renderlo leggibile agli uomini di cultura del tempo. Lavorando a queste traduzioni, Ficino ne comunicava i progressi nei suoi scritti, nella corrispondenza, in lezioni e dialoghi con gli interessati, che si vennero sempre più raccogliendo intorno a lui nella villa di Careggi. Questo circolo di appassionati di temi platonici si chiamò Accademia Platonica.
Le disquisizioni platoniche confortavano e distraevano il ricchissimo e anziano mecenate che non aveva altro da chiedere alla vita che il diletto dello spirito. Del resto, come abbiamo visto, con la conquista turca di Costantinopoli, molti dotti bizantini erano affluiti nelle città italiane e uno di loro, Giovanni Argiropulo, dal 1454 insegnava proprio allo Studio fiorentino e avviava i suoi ascoltatori alla conoscenza del grande filosofo greco. Ma ormai, accanto alle università medievali, cominciavano a formarsi nuove
istituzioni della cultura: le Accademie poste sotto la protezione di qualche potente e ricco mecenate o anche costituite liberamente dall’incontro spontaneo di intellettuali, aprivano la via a una cultura diversa, non finalizzata all’esercizio di una professione (medico, giurista) ma che si dichiarava semplicemente in grado di rendere più saggi e più ricchi di qualità morali e intellettuali.
Per la filosofia, basta il nome di Platone a mostrare l’arricchimento del quadro di riferimento filosofico europeo. Ma, dietro Platone, si avanzò allora una folla di autori antichi. Nel grande affresco di Raffaello, La Scuola d’Atene, eseguito per l’appartamento di papa Giulio II in Vaticano intorno al 1510, una folla di figure della cultura antica circonda Platone che, insieme ad Aristotele, spicca al centro: ma i tratti dei filosofi antichi sono presi da artisti e potenti personaggi dell’epoca. Platone ha il volto di Leonardo da Vinci, Eraclito quello di Michelangelo. L’idea che si voleva sostenere era quella di una Roma dove rinasceva l’antico e trovava i suoi degni eredi.
Nel 1506, sull’Esquilino, era stato rinvenuto e portato alla luce il complesso statuario del Laocoonte, di età ellenistica. L’entusiasmo che suscitò fu grandissimo. Era l’antico che rinasceva e portava intatti i suoi tesori. Gli scavi archeologici fecero rinvenire la «Domus Aurea» di Nerone, coi loro affreschi di creature fantastiche, mostruose: nacque da lì il genere pittorico della «grottesca». La Roma papale si impadroniva del mito del «rinascimento» e lo faceva proprio, candidandosi a rinnovare la fioritura artistica della Roma antica. L’arrivo sul soglio pontificio, dopo Giulio II, del figlio di Lorenzo il Magnifico, il giovane cardinale Giovanni de’ Medici, sembrò il segno di una rinascita culturale e morale dell’intera civiltà romana.
Accanto a Firenze, Roma si propose infatti come capitale delle nuove tendenze. A Roma, nel 1487 il giovane, ricco e prodigiosamente colto signore della Mirandola, Giovanni Pico, convocò una specie di convegno filosofico internazionale che fu inaugurato da un suo discorso sul tema centrale della nuova cultura umanistica: la «dignità dell’uomo» (Oratio de hominis dignitate). La tesi di Pico era che la natura umana è la sola a non condizionare lo sviluppo dell’individuo che, a differenza degli altri esseri, potrà ascendere fino alla beatitudine degli angeli o abbrutirsi al di sotto del livello degli animali. La libertà è la caratteristica umana in cui risiede la sua somiglianza con Dio.
Sandro Botticelli, Ritratto di uomo con la medaglia di Cosimo il vecchio 1474-75
Fiduciosa nella sua superiorità e nei suoi mezzi, la nuova cultura umanistica progettava un incontro fra le varie formulazioni della verità divina che avevano preso corpo nella storia: cultura classica, cultura cristiana, ma anche cultura ebraica, l’unica che appariva in grado di svelare i significati riposti nella Bibbia. Anche sul piano delle lingue necessarie al sapiente, si faceva strada un disegno nuovo: accanto al greco e al latino prendeva posto ufficialmente l’ebraico. I rabbini delle comunità ebraiche presenti in Europa trovarono ascolto tra gli umanisti; il testo dei Salmi, libro sacro per tutte le religioni monoteistiche mediterranee, fu fatto stampare in edizioni poliglotte da uomini che aspiravano a un incontro fra le varie religioni intorno ai testi comuni.
Tale fu l’edizione curata dall’umanista francese Jacques Lefèvre d’Etaples (1513). Il vescovo genovese Agostino Giustiniani ne stampò a sue spese una grande edizione che mandò anche al sultano turco (1516). Il sogno di una «pace tra tutte le fedi», che era stato coltivato dall’umanesimo cristiano del secolo XV fin dall’opera di Niccolò da Cusa, appariva ora possibile grazie all’espansione improvvisa del cristianesimo nele terre d’oltre oceano; il Giustiniani ricordava le profezie del suo concittadino Cristoforo Colombo e il fatto che ora, per la prima volta, l’annuncio del Vangelo aveva raggiunto i confini del mondo, realizzando la profezia che già san Paolo aveva tratto proprio dal passo di un salmo. E all’unificazione del mondo appena scoperto sotto il segno della pace e della tolleranza invitava anche Aldo Manuzio nel dedicare a Leone X la sua edizione greca e latina delle opere di Platone.
Libri antiche e scienza moderna
La conoscenza del mondo e dell’uomo. La politica: Machiavelli, La geografia: Tolomeo, Il cosmo: Copernico
La nuova cultura ebbe, oltre all’aspetto letterario – imitazione dei classici, ciceronianesimo – e a quello religioso – ritorno al modello della Chiesa apostolica, rinnovamento dello spirito evangelico in antitesi alla cultura dei frati – anche un aspetto di arricchimento delle conoscenze filosofiche, storiche, politiche, geografiche.
Pietro Pomponazzi (1462-1525)
Sul piano filosofico, la libertà delle dispute raggiunse dei vertici fino allora sconosciuti. La recente traduzione platonica andò alla ricerca dei significati riposti delle dottrine e dei riti cristiani per conciliarli con le altre religioni in un sapere superiore a-dogmatico. I commentatori di Aristotele, invece, approfondirono la traccia lasciata sulla Metafisica aristotelica dal commentatore arabo Averroé: il filosofo mantovano Pietro Pomponazzi (detto «il Peretto» per la sua piccola statura) nelle sue seguitissime lezioni all’Università di Padova si spinse fino alla negazione dell’immortalità dell’anima individuale. La pronta e dura reazione dei domenicani che lo minacciarono di processo lo costrinse alla ritirata. Ma il suo insegnamento lasciò un segno durevole.
Non solo dai libri arrivavano le idee nuove. Si racconta che il Pomponazzi, nel 1516, interrompesse una lezione per mettere al corrente i suoi studenti di una scoperta straordinaria che metteva fine a lunghe e inconcludenti diatribe di dotti: l’antica e dibattuta questione se esistesse il popolo degli «antipodi» - una razza immaginaria, che si pensava riflettesse specularmente le caratteristiche umane per adattarsi all’altra faccia della terra [camminando sulla testa, per esempio) – era stata risolta dalla straordinaria impresa della circumnavigazione del globo da parte di Magellano, cioè dall’esperienza diretta. Si poteva poteva dunque andare oltre le conquiste degli antichi, superare il loro pur altissimo modello.
La cultura dell’epoca fu animata da questa gara con gli antichi. I commentatori sottolineavano le conquiste del loro tempo che mettevano tra parentesi un’epoca oscura e stringevano una nuova alleanza con l’antico: a) i libri della cultura «umana» uscivano dalle tenebre delle biblioteche monastiche e diventavano patrimonio comune; b) la barbarie del latino medievale era relegata in un’età intermedia tra l’antico e la rinascita dell’antico; c) da quelle che sempre più diffusamente venivano definite le «tenebre» del millennio successivo alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, si usciva ora con le nuove imprese di navigazione e di commercio con le Indie Orientali e Occidentali. A questa immagine luminosa dell’età che poi fu detta del Rinascimento corrispondevano dei dati di fatto. Proviamo a indicarne alcuni.
Michiel van Mierewelt, Lezione d’anatomia, 1617
Nel progredire delle conoscenze sull’uomo, va tenuto conto delle scoperte dell’anatomia. L’insegnamento dell’anatomia si svolgeva nell’università sulla base di una netta distinzione tra libro e corpo. Il docente leggeva e illustrava il testo di Galeno, mentre il compito (meno importante) dell’esercitazione pratica, cioè di mostrare com’era fatto il corpo umano, era assegnato ad un operatore manuale, il «barbiere», che dissezionava il cadavere. Nel 1543 il celebre anatomista Andrea Vesalio rovesciò l’attribuzione delle parti: al centro della scena fu posto il corpo, e dalla lettura del corpo umano il docente verificò l’esattezza e gli eventuali errori degli anatomisti più venerati dell’antichità. Nacque cosi il «teatro anatomico», cioè un’aula organizzata in modo da far concentrare lo sguardo degli studenti sull’oggetto dell’esperienza, che prendeva ora il posto del libro.
Dalla lettura delle «deche» dello storico romano Tito Livio, il fiorentino Niccolò Machiavelli ricavò le basi di una nuova scienza che propose ai lettori dei suoi libri: la politica. Mentre moralisti e teologi si sforzavano di piegare i comportamenti dei potenti ai precetti della morale cristiana e si lamentavano perché non venivano ascoltati, Machiavelli si applicò allo studio dei dati dell’esperienza, o come lui la definiva, della «realtà effettuale». Machiavelli conosceva e amava la lettura dei classici. Nato nel 1469 da una famiglia di antica tradizione fiorentina ma di modeste risorse economiche, aveva fatto buoni studi: suo padre, amministrando attentamente le rendite di un poderetto, registrò nel suo libro di ricordi l’acquisto per il figlio del poema di Lucrezio, le cui dottrine filosofiche epicuree contribuirono allora alla crisi della visione tradizionale.
Entrato come segretario della Cancelleria, fece esperienza di politica negli anni della repubblica fiorentina; tornati al potere i Medici, dovette ritirarsi a vita privata e fu allora che nel dialogo con gli antichi trovò modo di mettere a frutto la sua esperienza. Fu da qui che nacquero i suoi scritti più importanti, dove la nuova scienza della politica doveva trovare i suoi fondamenti: Il Principe e i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, composti intorno al 1513-15. Questi scritti arditissimi videro la luce solo dopo la morte dell’autore e, appena conosciuti, suscitarono polemiche vivissime e finirono per essere messi al bando dalla censura ecclesiastica, che li proibì sotto pena di scomunica. Ciò che sconvolgeva i lettori era la descrizione fredda delle radici del potere politico e dei procedimenti coi quali lo si conquistava e lo si manteneva. Il principe per costruirsi e mantenersi lo Stato doveva ricorrere all’uso della forza e dell’astuzia, essere «lione» ma anche «golpe» (volpe), rinunciare a seguire i criteri della morale valida per i singoli e dunque simulare e dissimulare, mentire, assassinare, se necessario.
Cesare Borgia
Il comportamento di Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI, offrì materia alle osservazioni di Machiavelli che vide nel suo tentativo di costruirsi uno Stato con l’eliminazione anche fisica dei signorotti delle città dell’Italia padana un modello di creazione di uno Stato «nuovo». Il modello della repubblica romana antica gli apparve il più importante da analizzare per capire come uno Stato si fosse mantenuto forte e vitale per secoli e avesse potuto conquistare un dominio vastissimo: tra le condizioni favorevoli, Machiavelli sottolineò la vivace dinamica interna di conflitti tra gruppi sociali diversi, come pure la funzione svolta da una religione tutta rivolta non alla salvezza delle anime ma alla grandezza dello Stato.
Machiavelli dette anche un’amara e spietata diagnosi della crisi politica degli stati italiani davanti allo scatenarsi delle guerre tra i grandi stati europei: gli apparivano chiari la mancanza di una potenza in grado di unificare la penisola e la funzione svolta dalla Chiesa e dal Papato nell’impedire ogni possibile crescita di altre realtà statali in Italia.
La lunga crisi dello Stato fiorentino impedì a Machiavelli di avere la possibilità di vivere direttamente l’esperienza politica. Convinto profondamente della necessità di uno Stato di poter contare su di un proprio esercito per non dover ricorrere alle milizie mercenarie, espose nell’unica opera teorica pubblicata durante la sua vita «L’arte della guerra» le regole che si potevano ricavare dalla storia romana sulla struttura e sull’organizzazione militare. Non poté sperimentare direttamente il valore delle sue intuizioni. Ma le sue idee sulla natura e sulla dinamica dei conflitti politici, approfondite attraverso
«una lunga esperienzia delle cose moderne e una continua lezione delle antique»,
lasciarono un’impronta profonda nella successiva storia europea. La nuova realtà degli Stati moderni aveva trovato in lui il suo scienziato.
cartografia di Tolomeo
Agli antichi ci si rifaceva anche per conoscere meglio la configurazione del mondo. La pubblicazione della Geografia dello scienziato greco Claudio Tolomeo fu l’avvenimento che rivoluzionò la conoscenza del mondo. Carte e mappamondi utilizzarono le informazioni del geografo antico per fornire una rappresentazione del mondo conosciuto. Ma fu sulla base di quelle carte che Cristoforo Colombo ritenne possibile raggiungere le Indie seguendo la rotta di Occidente e giunse così alla scoperta dell’America. Fu una scoperta di incalcolabie importanza, come vedremo più avanti.
Ma da quella scoperta fu suggerita l’idea che l’esperienza era più ricca di tutti i libri e che se si era potuto trovare un mondo nuovo, altri ce ne potevano essere, se non sulla terra certo nel cosmo. Se Colombo aveva trovato un mondo nuovo, altri e infiniti mondi potevano essere trovati nell’universo, sostenne l’ingegno ardito del filosofo napoletano Giordano Bruno, nato a Nola nel 1548 e morto sul rogo a Roma nel 1600, ucciso dall’inquisizione ecclesiastica per l’arditezza delle sue idee.
Giordano Bruno (1548-1600)
Niccolò Copernico (1473-1543)
L’esperienza allargava il mondo chiuso del Medioevo. Ma proprio alla radice di un’apertura al mondo dell’esperienza per verificare e correggere il sapere dei libri venne la più importante e sconvolgente delle scoperte umane di quest’epoca: fu quella fatta dall’astronomo e matematico polacco Niccolò Copernico. Dallo studio delle orbite dei pianeti, Copernico arrivò alla scoperta che non la terra ma il sole costituiva il centro del sistema planetario. La teoria che assegnava alla terra la posizione di centro dell’universo era stata sostenuta da Tolomeo e offriva un’idea confortante, tale da mettere d’accordo l’illusoria evidenza dei sensi con l’orgoglioso pregiudizio della centralità dell’uomo nella creazione divina.
La scoperta di Copernico era tale da creare seri problemi a chiunque l’avesse voluta sostenere; per questo, l’opera in cui Copernico esponeva le sue scoperte (De revolutionibus orbium
coelestium) fu pubblicata postuma, da parte di un teologo luterano, Andreas Osiander, che la presentò come un' ipotesi matematica senza nessun riferimento alla realtà. Era un modo per evitare guai da parte delle Chiese e delle loro verità costituite e per il momento funzionò. Ma ben presto cominciarono i problemi: quando l’ipotesi fu presentata come una verità, arrivarono censure sempre più severe. Essere copernicano diventò pericoloso. Lo sperimentarono prima Giordano Bruno e poi Galileo Galilei.