Credo molto nelle potenzialità dei social network e vi sto di fatto spendendo le mie migliori energie. Sono convinta che una scuola 2.0 debba affiancare a un solido studio dei contenuti una diffusione degli stessi in un formato appetibile e soprattutto vicino alle modalità di comunicazione degli studenti, che di certo al giorno d'oggi non scrivono soltanto con carta e penna, ma ricorrono spesso alla leggerezza dei bits. Qualcosa che del resto già Calvino aveva preconizzato nelle sue Lezioni Americane.

Confrontarsi con il pubblico della comunità social, ben più vasto del microcosmo classe (e potenzialmente infinito), proponendo il proprio lavoro, significa per gli studenti sviluppare ottime doti di sintesi nell'esposizione dei contenuti e mantenere buon controllo ortografico. Non solo, essi devono imparare a scrivere in modo accattivante e spigliato, così da ottenere l'attenzione dei lettori, nonché variare il registro stilistico a seconda delle diverse situazioni comunicative.

giovedì 7 gennaio 2016

Lo scrittore e il denaro


Nel corso dell'Ottocento diviene sempre più raro il caso dello scrittore che,  grazie alle sue rendite, si permette di trascurare i guadagni che gli potrebbero provenire dalla attività. Anzi, comincia già fin dai primi decenni del secolo a comparire  la figura dello scrittore che cerca di vivere con quello che ricava dalla sua professione intellettuale.  Leopardi ad esempio è nobile,  ma le sostanze della famiglia non gli consentono di soggiornare lontano dalla sua piccola città di provincia, Recanati,  nei grandi centri dove serve la vita intellettuale.  Deve perciò adattarsi ad accettare un compenso mensile da un editore milanese, lo Stella, per alcuni lavori letterari, un commento al Canzoniere di Petrarca, un'antologia della poesia italiana è una della prosa. Il padre, il conte Monaldo, che è un uomo all'antica, il 6 ottobre 1825 scrive al figlio esprimendo tutte le sue perplessità per un'attività volta dietro compenso,  che gli sembra umiliante per un uomo di rango nobiliare ( Leopardi aveva anche accettato di impartire lezioni di latino  a un giovane greco): “ piuttosto che mettersi allo stipendio di uno stampatore mercante, avrei creduto meglio il pattuire che vi pagasse i vostri scritti un tanto al foglio, e così, piuttosto che ricevere otto scudi mensili dal greco che vuole imparare il  latino, mi avrei accettato un dono non pattuito. Secondo le nostre antiche idee, e forse pregiudizi, questi emolumenti mensili mi sembrano alquanto umilianti”. Monaldo testimonia così la mentalità dell'aristocratico, per cui percepire uno stipendio per una prestazione intellettuale risulta disonorevole. Il  figlio, rispondendo con pacatezza ma anche con fermezza, dimostra invece una mentalità ben più aperta: “ I lavori poi  che io debbo fare, sono  interissimamente a mia disposizione, giacche Stella non mi ha detto e ripetuto altro, se non che egli spera che le opere che io farò non le manderò ad altri che a lui. In  queste cose a me pare che non vi sia nulla di umiliante. Quello  che io ricevo dal greco sarebbe forse un poco meno nobile,  come è seccantissima per me quell'ora che passo con lui.  Nondimeno  nelle idee di questa città non vi è nulla di  vile  annesso alla funzione di precettore, anzi qui tutti i letterati forestieri si chiamano professori”.  Come si vede,  la condizione è che il contratto con l'editore  gli lasci intera la sua libertà intellettuale; per il resto lavorare per un compenso mensile sembra al poeta del tutto decoroso, così come insegnare.



Questa  mentalità  più moderna nel rapporto dell'attività intellettuale con il denaro si riscontra ugualmente presso Manzoni.  Anch’egli è nobile e, a differenza di Leopardi, grazie alle rendite può dedicarsi in piena libertà agli studi e alla scrittura. Però, nel pubblicare l'edizione definitiva  dei Promessi Sposi nel 1840- 1842, non esita a lanciarsi in un'impresa commerciale, diventando di se stesso e mettendo a proprie spese sul mercato le coppie del suo romanzo in una bella edizione illustrata. L’ impresa risponde soprattutto all'esigenza di stroncare la concorrenza sleale:  non essendovi leggi che regolassero il diritto d'autore, esistevano numerose edizioni del romanzo ( che era stato un vero best seller),   da cui all'autore non giungeva alcun provento. Manzoni sperava che la nuova edizione riveduta e riccamente illustrata togliesse dal mercato le altre edizioni per così dire “pirata”. L’ impresa non andò secondo i suoi calcoli  e pile intere di volumi rimasero invendute, con grave danno economico dell'autore. Il tentativo editoriale rivela però in Manzoni una chiara consapevolezza dei problemi che si pongono allo scrittore nei suoi rapporti con il mercato nel mondo ormai borghese,  in cui quella del mercato è la legge dominante. La  modernità di visione  dello scrittore  è testimoniata anche dal suo impegno a favore di una legislazione che tutelasse il diritto d'autore, condizione indispensabile per l'affermarsi di una figura nuova di scrittore, svincolato sia dalla rendita feudale sia dalla condizione subalterna del cortigiano, che era durata secoli.

Questa consapevolezza dell'importanza del diritto d'autore si può riscontrare in uno scrittore che è ormai, nella seconda metà dell'Ottocento, pienamente inserito nel mondo borghese e ne riflette in modo perfetto la mentalità: Emile Zola. Il caposcuola Naturalismo letterario dedica al problema un saggio molto interessante, intitolato Il denaro nella letteratura, pubblicato nel 1880  nel volume  Il romanzo sperimentale. Lo scrittore prende le mosse ricordando le recriminazioni, ricorrenti ai suoi tempi, sullo spirito letterario che scompare, sulle lettere sopraffatte dal mercantilismo, sul denaro che uccide lo spirito e fa  dello scrittore un mercante come un altro, che vende o non vende la propria merce secondo il marchio di fabbrica.  Zola  riconosce che si è verificata una trasformazione e prima di esprimersi su di essa vuole esaminare le condizioni degli scrittori nei secoli passati: essi erano cortigiani,  osserva, parassiti mantenuti dai signori, e ritenevano un onore godere delle loro  prebende.  Il cosiddetto “ spirito  letterario” non era che il frutto dell'otium assicurato dalla loro posizione parassitaria. Le lettere si intonavano ai gusti della società aristocratica, alle norme delle accademie, che generavano infinite dispute  retoriche. Oggi invece, continua Zola, lo scrittore può vivere del suo lavoro, nel giornalismo, scrivendo romanzi o testi per il teatro. Questa indipendenza economica a suo avviso  va vista con favore, come fonte di maggior dignità per lo scrittore: “ Oggi l'idea più alta che noi ci facciamo di uno scrittore è quella di un uomo libero da ogni costrizione... che ricava la sua vita, il suo talento, la sua gloria solo da sé stesso”. Oggi non esistono più i piccoli cenacoli d'elite, ma si va formando il grande pubblico. La democrazia arriva nel mondo delle lettere. Ciò che oggi rende lo scrittore  degno e rispettato è il denaro. È  sciocco, sostiene con forza Zola, declamare contro il denaro, contro l’avvilimento delle lettere che sacrificano al vitello d'oro. Coloro che  così ritengono non capiscono che il denaro è fonte di giustizia e libertà. Lo scrittore attuale deve la sua dignità al denaro. Il guadagno legittimamente tratto dalle sue opere  lo ha liberato da ogni protezione umiliante di signori e principi, ha fatto del buffone di corte un cittadino libero. Grazie al denaro lo scrittore ha osato dire tutto, ha indirizzato la sua critica a tutto, anche al re,  a Dio. Il denaro  ha emancipato lo scrittore e ha creato le lettere moderne; chi ha talento arriva al successo, solo i mediocri falliscono.  La selezione naturale, liberata da ogni protezione e da ogni privilegio, fa emergere i migliori. È inutile quindi rimpiangere la letteratura del passato: oggi la nostra società democratica, insiste Zola, comincia ad avere le sue espressioni.Come si vede, in questo inno al denaro come garanzia dell'indipendenza degli scrittori e della selezione dei più dotati Zola  si rivela un perfetto rappresentante dello spirito borghese, che considera lo scrittore un produttore alla pari degli altri, giustamente indotto a competere nel mercato per affermarsi.

 Una concezione diametralmente opposta viene invece enunciata, pochi anni dopo, da D'Annunzio, nel quale si esprime lo spirito violentemente antiborghese dell'intellettualità decadente ed estetizzante, che   prova   disgusto del denaro e del mercato ed erige l'arte a supremo valore, oggetto di un vero e proprio culto religioso. Significative a tal proposito sono le affermazioni che lo scrittore mette in bocca a un suo personaggio, il protagonista del Piacere, Andrea Sperelli, che in questo caso è suo diretto portavoce ( ripete infatti ciò che D'Annunzio stesso aveva scritto in un articolo pubblicato sul giornale “ La tribuna”). La bella Elena Muti gli chiede: “ Perché voi rimanete così lontano dal grande pubblico?”;  il raffinato artista così risponde:

 Il mio sogno è l’Esemplare Unico da offrire alla Donna Unica. In una società democratica com'è la nostra, l'artefice di prosa o  di verso deve rinunciare ad ogni benefizio che non sia d amore. Il lettore vero non è già chi mi compra ma chi mi ama. Il lettore vero e dunque la dama benevolente... La vera gloria è postuma, quindi non godibile. Che importa a me di avere, per esempio, cento lettori nell'isola dei Sardi e anche  dieci ad Empoli e cinque,  mettiamo, ad Orvieto?  E quale voluttà mi viene  dall'essere conosciuto quanto il confettiere Tizio o il profumiere Caio? Io, autore, andrò nel cospetto dei posteri armato come potrei meglio;  ma io, uomo, non desidero altra corona di trionfo è una... di belle braccia ignude.

 Risolta con evidenza da queste battute un rifiuto radicale della letteratura come merce da offrire sul mercato, fino alla negazione della comunicazione stessa tra autore e pubblico,  sostituita  dalla comunicazione erotica tra lo scrittore e la Donna Unica, conquistata dal libro come strumento di seduzione. Erotismo ed estetismo si combinano per negare la visione borghese fondata sulla centralità del denaro e del profitto.

 In realtà D'Annunzio era molto attento alla diffusione dei suoi libri tra il pubblico: se ne trovano innumerevoli documenti tra le sue lettere,  in cui egli contratta accanitamente con gli editori i compensi per le sue opere, rivelando uno spirito affaristico molto scaltrito.  Si veda questo passo da una lettera al suo editore, Emilio Treves, che riguarda proprio la pubblicazione del Piacere,   il romanzo da cui è tratto il passo sopra citato:

 Io sono favorevole al sistema del tanto per copia. Mi pare il migliore perché il più giusto. Se il mio libro avrà un ampio successo, come io mi auguro, sarà bene per me per il mio editore. Se no,  il rischio sarà uguale per entrambi. Io  chiedo, per ogni  copia il quarto del prezzo di vendita. Mettiamo che il volume sia messo in vendita a lire 4, io chiedo per ogni  copia una lira... Desidero che il volume non si venda ameno di lire 4, perché il pubblico è abituato a comprare  caro  i miei libri... Credo che le mie condizioni le debbano convenire. Nel caso, dunque, che  convengano, spero che  potremo metterci d'accordo anche per i miei libri futuri.

Questa volontà di conquistare il pubblico è riconoscibile anche nel modo in cui i libri dannunziani sono costruiti, nella ricerca dei personaggi,   delle vicende, degli ambienti che possano affascinare il lettore  borghese, trasportandolo in un mondo di lusso, eleganza  raffinata e arte, in cui si consumano passioni travolgenti tra esseri eccezionali e si stringono scandalosi legami erotici:  in tal modo chi legge può evadere dalla sua grigia realtà quotidiana. Era questo un programma consapevolmente e deliberatamente perseguito da D'Annunzio, come rivela questa dichiarazione rilasciata in un'intervista:

Tra il romanzo sottile appassionato e perverso, che  la dama  assapora con lentezza voluttuosa nella malinconia del suo salotto aspettando, e il romanzo di avventure sanguinarie,  che la plebea divora seduta al banco della sua bottega, c'è soltanto una differenza di valore. Ambedue i volumi servono ad appagare un medesimo bisogno, un medesimo appetito:  il bisogno del sogno, l'appetito sentimentale. Ambedue in diverso modo ingannano un’ inquieta aspirazione  ad uscire fuori dalla realtà mediocre, un desiderio vago di trascendere l'angustia della vita comune, una smania quasi incosciente di vivere una vita più fervida e più complessa.

 E lo scrittore era anche molto abile  nell'organizzare il lancio pubblicitario delle sue opere:  ad esempio,  per stimolare le vendite del Piacere, fece diffondere col volume delle incisioni dell'amico Aristide Sertorio, facendole passare per le opere  dell’eroe del romanzo, raffinato acquafortista. È evidente che questi comportamenti contraddicono le affermazioni contenute nel romanzo. Ma quelle di D'Annunzio sono le contraddizioni inevitabili dello scrittore nella piena età borghese:  per quanto voglia opporsi al mercato in nome dell'ideale della bellezza,  con il mercato  non può evitare di fare i conti, se vuol sopravvivere e  se aspira ad essere letto.

 D'Annunzio, grazie alle sue abili strategie promozionali  e alla forza  contrattuale presso gli editori, garantitagli dal mito che aveva saputo crearsi, guadagnò molto con i suoi libri, anche se le ingenti somme versategli  non bastavano mai per far fronte agli sperperi  inauditi del suo  “  vivere inimitabile”. Gli altri scrittori italiani tra fine ‘800 e primi del ‘900 non erano in grado invece di vivere con i soli proventi dei loro libri e dovevano far conto su altre entrate. Verga godeva delle rendite di suoi possedimenti   fondiari;  Svevo  dopo il matrimonio divenne un ricco industriale, mentre prima era un semplice impiegato di banca;  Carducci e Pascoli erano  insegnanti universitari, come pure Pirandello, che per arrotondare il modesto stipendio collaborava ai giornali con le sue novelle, e solo dopo il successo teatrale poté lasciare l'insegnamento. Degli scrittori maggiori della pieno ‘900 ben pochi poterono vivere dei soli diritti d'autore. Ungaretti fu insegnante e giornalista,  Montale diresse per un certo periodo il Gabinetto Viesseux  a Firenze  e fu anche egli giornalista.  Pavese, dopo qualche esperienza di insegnamento, divenne redattore della casa editrice Einaudi, così come Calvino,  che solo dopo il successo dei suoi libri poté  vivere dei soli diritti d'autore. Pasolini fu  insegnante in gioventù, attraversò anni difficili, ma poi ebbe successo come regista cinematografico. Moravia, oltre a essere di famiglia ricca, grazie alle  alte tirature  dei suoi romanzi poteva contare su cospicui diritti d'autore, però svolse per tutta la vita la professione di giornalista e pubblicista.





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