Il cigno
Parigi cambia! ma nella mia malinconia
niente muta! ponteggi, blocchi, nuovi edifici,
vecchi sobborghi, tutto diventa allegoria
e i miei cari ricordi più duri delle selci.
APPROFONDIMENTO:
E. Tadini, Andromaca. La madre di tutti gli esiliati, “Corriere della Sera”, 27 agosto 2002
Paris, Place du Carrousel, 1852
- Quando, a partire dagli anni Settanta del secolo XIX, il mercante tedesco Heinrich Schliemann decide di darsi all’archeologia, e di portare alla luce i resti di Troia in Asia Minore partendo dalle indicazioni dell’Iliade di Omero, è come se tutto un mondo, pur conservando la sua grandezza mitica, entrasse nella storia. Non entrano nella storia soltanto le mura e i muri, le strade, i palazzi della città assediata e poi distrutta dai Greci. Entrano nella storia anche i grandi personaggi che la abitavano. E tra i primi, certo, il figlio del re Priamo, Ettore e la sposa di Ettore, Andromaca, con il figlio Astianatte. Nella storia – e nel mito, e nella poesia – Andromaca è forse una delle prime grandi figure della sposa dolorosa. Conosce tutti i pericoli della guerra terribile che si sta combattendo intorno a casa sua. E conosce altrettanto bene il rischio mortale che corre il marito – finché lo vede morire atrocemente per mano di Achille in un ultimo duello decisivo sotto le mura della città. Dopo la conquista, poi, Andromaca diventerà il simbolo della donna separata dai suoi cari, umiliata, strappata alla sua casa, alle sue origini, ridotta alla sorte di un qualsiasi bottino di guerra spartito brutalmente tra i vincitori. E tornerà ad abitare la poesia – da Virgilio a Racine, per fare soltanto qualche nome. Ma è forse Baudelaire il poeta che grida il suo nome più forte e più alto di tutti, in una meravigliosa poesia diLes fleurs du mal intitolata Le Cygne – il cigno. Potremmo dire che, muovendosi per Parigi – la metropoli capitale del secolo – Baudelaire è il vero creatore della poesia urbana, della poesia della grande città. Ora, Baudelaire scrive Le Cygnenei giorni in cui il centro di Parigi è sconvolto dalle grandi demolizioni di molti vecchi quartieri popolari per far posto al nuovo sistema centralizzato dei grandiboulevards – spettacolare e funzionale rispetto alle esigenze del traffico e dell’ordine pubblico. «La vecchia Parigi è scomparsa (la forma di una città / cambia più in fretta, purtroppo, del cuore di un mortale)»… Ma in questo scenario sconvolto la figura di Andromaca in esilio folgora l’immaginazione del poeta. «Andromaque, je pense à vous!». «È a te che penso, Andromaca!» così incomincia Le Cygne – mentre il poeta ha davanti agli occhi un povero cigno scappato dalla sua gabbia, e intento a cercare disperatamente un corso d’acqua degno del suo corpo maestoso tra gli sporchi rigagnoli che scorrono tra le rovine delle demolizioni. E qui si dà dunque una prima identificazione tra Andromaca in esilio, lungo la riva di fiumi sconosciuti, estranei, e quel grande, nobile animale sconciato dal destino – «Tesa la testa avida sul collo convulso / Come se stesse lanciando rimproveri a Dio». A questo punto incomincia la seconda parte della poesia: «Parigi cambia – non è cambiato niente nella mia melanconia»… E, alle spalle di quella coppia simbolica formata da Andromaca in esilio, ridotta a preda di guerra, e dal cigno nel fango, viene avanti, evocato, tutto un corteo tormentato di creature umiliate e offese. «Io penso a chiunque abbia perduto / Ciò che non si ritrova mai, mai, a quelli che si abbeverano di lacrime / E succhiano il latte di quella buona lupa che è il Dolore!…». Ma da chi è guidato, quel corteo di anime morte e senza faccia, anonime? Da un ultimo personaggio identificabile, che si colloca così a pieno diritto simbolico vicino alla figura del Cigno che dà il titolo alla poesia e alla vedova Andromaca, subito evocata. «Penso alla donna nera, malata, smagrita / Che strascica i piedi nel fango, gli occhi stravolti / Che cercano le palme assenti dell’Africa superba / Di là della muraglia immensa della nebbia». Il circolo è chiuso. Il Cigno-Andromaca-l’africana a Parigi. La sconfitta, la perdita, la decadenza. E il rimpianto. E tutto questo non tanto come condizione occasionale, riportabile a vicende particolari. Tutto questo come una specie di condizione di fondo per le grandi masse che vivono in una metropoli di quel tempo, lacerata da contraddizioni inconciliabili tra le pretese spietate dello sviluppo industriale e le fragili esigenze di masse sempre più grandi di persone che si vedono coinvolte, disposte a forza da un ambiente completamente nuovo e, per molti aspetti, ostile, duro, violento. È davvero una grande intuizione, questa di Baudelaire. Ancora tra mito e storia, dopo la figura goffa e arrovellata del cigno, dopo quella dolorosa di Andromaca, ecco che viene avanti sulla scena di una metropoli e di una poesia sconvolta profondamente da cambiamenti epocali, la figura di una donna nera, di una africana separata, lontana dal suo mondo, data a un esilio irreparabile. Non è davvero come se il poeta avesse previsto con oscura lucidità ciò che sarebbe accaduto in Europa, un secolo almeno più tardi? Gli spostamenti, le migrazioni, le separazioni… i movimenti ripetuti sugli stessi itinerari da eserciti disarmati, disperati, forti soltanto dell’impulso insopprimibile, che li sospinge, a cercare di risolvere le loro necessità più semplici, più elementari, e della loro connaturata ostinazione… In fondo, il grande tema di Le Cygne è il tema dell’esilio. Di quell’esilio che accomuna la condizione di chi è costretto a lasciare la propria terra per andare a vivere in un altrove ostile e sconosciuto, rischiarato solo da qualche speranza, alla condizione, comunque, di chi vive separato, del figlio del dolore, di quella massa di gente che incomincia ad affollare le metropoli europee in quegli anni, quando le grandi industrie in sviluppo vertiginoso esigono la presenza di una mano d’opera sempre più numerosa e disponibile. Cosa che Baudelaire, naturalmente, da grande poeta, vede e riconosce come un evento capitale nella storia e nel destino quotidiano di centinaia di migliaia di uomini costretti a un cambiamento totale di vita. Ne ha fatta, di strada, Baudelaire, in questa sua poesia, dall’apparizione incongrua di un cigno furibondo tra demolizioni e rovine, a quel nome, «Andromaca!», gridato all’improvviso, fino alla donna nera che sembra porsi alla testa di un esercito di perduti. Ma adesso, arrivati alla fine, possiamo tornarci, a quel nome antico, a quella oscura figura il cui presente è tutto speso a rimpiangere un passato che non potrà più tornare e dal quale resterà separata per sempre. Adesso anche per noi Andromaca è un nome, un simbolo cui pensare. Magicamente, nella grande poesia di Baudelaire, mito e storia si sono davvero ricomposti…
Roberto Gigliucci, La metropoli, luogo d’elezione della poesia di Baudelaire, “Liberazione”, 30 GIUGNO, 2007
«Nella folla, nella “rue assourdissante”, sui boulevards, lo sguardo del poeta, come quello del pittore moderno, coglie dentro la “vie multiple” gli elementi immutabili, dentro il transitorio e l’effimero il pulsare dell’eterno, sa estrarre la “beauté mystérieuse” dal tumulto della vita metropolitana» (Antonio Prete, I fiori di Baudelaire. L’infinito nelle strade, Donzelli). E’ proprio la strada metropolitana assordante di violenze acustiche grevi o stridule, formicolante di umani atoni o ribelli, borghesi e stravaganti, comunque assolutamente moderna nella costitutiva “impoeticità”, a offrire a Baudelaire il luogo d’elezione della poesia. Perché la bellezza, il lampo metafisico, l’oltre, la fascinazione di un tempo perduto o irraggiungibile, lo struggimento per una dimensione metempirica, tutto questo non è più attingibile nei territori della perfezione astratta, negli equilibri della classicità perenne, del classicismo che idealizza il reale. […] La poesia delle Fleurs ospita un cigno umiliato e incespicante sul secco lastricato della strada di Parigi, una Parigi «che cambia», si trasforma, esplode in cantieri polverulenti come in bolle o eritemi urbani, dove all’alba gli spazzini sollevano uragani di lercia ombra: in questa modernità che offende sontuosamente, il cigno si leva e bestemmia. Il nuovo Prometeo è un surreale, incongruo, ridicolo-sublime cigno decontestualizzato da ogni lago astratto, immerso in un urbanesimo volgare e nemico, colto in una fuga accidentale e non prevedibile (che ci fa un cigno in un vicolo arido di Parigi?), quindi un cigno privato di idealità e confinato nella stravaganza e nell’esilio, un esilio non più peraltro aperto e immenso come «le acque dell’eterno esilio» che ospitano l’apparizione dell’albatro in Moby Dick o le acque amare dell’albatro di Baudelaire, su cui già Prete ha scritto un aureo saggio qualche tempo addietro.
Perdita d’aureola, insomma, o forse riconquista dell’aureola nel martirio della modernità. […] Risulta impossibile la «separazione dei fiori dal male», della bellezza dalla atrocità.
FRANCO RELLA, MITI E FIGURE DEL MODERNO, Feltrinelli, 1993, pp. 71-73
Baudelaire ha combattuto una battaglia aspra e continua contro la “brutale dittatura” del tempo, contro “il giocatore avido” che vince ogni partita. “Il tempo mangia la vita”, inghiotte “minuto dopo minuto, come la neve immensa un corpo irrigidito”. Baudelaire “come un angelo imprudente viaggiatore” che è mosso “dall’amore del difforme”, è penetrato in questo territorio gelido e bianco, come in un “incubo enorme, senza fondo”, “come in un luogo pieno di rettili”, alla ricerca della “luce”, di “una chiave”. Ma egli non ha trovato altro che “nitidi emblemi, il quadro perfetto/di un destino irredimibile”. Ha trovato le allegorie del “moderno” che spiavano con sguardi familiari e inquietanti da ogni andito di Parigi, da ogni portone e da ogni vetrina, in cui con la merce si esibiva e si celebrava il rito dell’effimero. L’orologio è uno di questi emblemi: figura di un “dio sinistro, spaventoso e impossibile”, che indica l’attrazione irresistibile dell’abisso assetato, mentre la clessidra si svuota.
“Urtato dalle gomitate della folla” Baudelaire si sente ormai, in questo viaggio, come “un uomo spossato, che veda dietro di sé negli anni profondi solo delusione e amarezza, e, davanti, solo una tempesta che nulla racchiude di nuovo: né insegnamento né dolore”. E’ il mondo che finisce, che non ha ragioni per esistere ulteriormente. Ed è in questo finire che “ad ogni minuto siamo schiacciati dall’idea e dalla sensazione del tempo”. E non c’è che un mezzo “per sfuggire a questo incubo, per dimenticarlo”.
Se il tempo non può essere “redento” allora è necessario “perdere il tempo”, consumarlo attraverso il lavoro o il piacere. Ed è per questo che il dandy e il lavoratore asservito al tempo della macchina sono due figure complementari: figure del tempo perduto, che abitano appunto la Parigi capitale del XIX secolo, la capitale del moderno: ebetudine del lavoro asservito, il tempo “molle” del dandy, l’ebbrezza “di vino, virtù o poesia” per perdere il tempo o almeno alleggerire “il suo orrido fardello”.
In realtà Baudelaire ha fatto anche il tentativo, nella sua disperata lotta contro il tempo di redimerlo, o almeno di salvarne un frammento attraverso l’esperienza dello choc, dell’immagine improvvisa che balena nell’attimo come un’enigma di felicità, Ma lo choc, nel momento stesso in cui sembra consegnarci un’immagine sottratta ai decreti del tempo, ci rivela anche che la nostra coscienza è divisa e “decade dalla sua apparente generalità esibendosi come parte”. Per esempio lo choc dell’incontro con una passante colpisce il poeta all’improvviso, lo lascia “crispé comme un extravagant”. E’ l’attimo immenso, folle, ma esso non è che “un lampo … poi la notte”. Questa “bellezza è fuggitiva”, ormai consegnata a un “troppo tardi! Forse mai!”.
Baudelaire cerca di fissare queste sensazioni, questa esperienza dell’attimo dello choc, per esempio nell’odore di una donna, della sua chioma, del suo seno”. Queste “analogie” gli rievocheranno “l’azzurro del cielo immenso e circolare”, o “un porto pieno di fiamme e navi”. Il poeta si fa archeologo della memoria. Scava nelle “catacombe del passato” dove l’individuo, ma anche l’umanità intera, “raccoglie tutta la sua vita”. “Ho più ricordi che se avessi mille anni”. ma questa memoria è una dannazione perché rende il soggetto “un cimitero aborrito dalla luna”. Il ricordo diventa “una reliquia secolarizzata”. In esso, come ha osservato Benjamin, ” si deposita la crescente autoestraniazione dell’uomo che cataloga il suo passato come un morto possesso (…). La reliquia deriva dal cadavere, il “ricordo” dall’esperienza defunta, che si definisce eufemisticamente, “esperienza vissuta”. Montale, In limine agli Ossi di Seppia, concludendo questa parabola baudelairiana, parla di “un morto viluppo di memorie” che “orto non era, ma reliquiario”.
La fissazione feticistica sui capelli di una donna, sul profumo di una capigliatura, non è che il gesto di chi colleziona le proprie esperienze e le proprie sensazioni. Ma il collezionismo si svela come un’ansia di totalità sempre frustrata. I frammenti del passato qui si allineano irrigiditi, svelando la loro natura irrimediabilmente sostitutiva e illusoriamente consolatoria. Sono i segni di un’assenza che non ha redenzione. Il mondo in cui abita il collezionista è un mondo in cui “anche la primavera ha perduto il suo odore”. E’ il mondo grigio dello spleen e della malinconia.
In questo mondo non c’è nemmeno più possibilità di parola. Non c’è trasmissione o comunicazione possibile, ma solo complicità: “Tu, ipocrita lettore, mio simile, mio fratello!”. Baudelaire ha descritto questo passaggio con un’immagine folgorante e definitiva: “Sono come il re di un paese piovoso / ricco, ma impotente; giovane e tuttavia vecchissimo”. Re di un mondo grigio e piovoso, sede di un potere inutile, quello della molteplicità delle memorie morte, in cui si abita vecchissimi, prossimi alla fine: “Si dice che ho trent’anni; ma se ho vissuto tre minuti in ogni minuto …”.
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